Pericle coda storta e bastardo – V – L’età di Pericle
Tra le cose che Pericle ebbe modo di scoprire nell’età successiva all’aggressione a Dario c’era il piacere dell’abitudinarietà. Nei giorni randagi tra la sua nascita e l’evento che cambiò il corso degli eventi, la sua esistenza era stata così precaria e infelice da non permettergli di fare la stessa azione o compiere lo stesso gesto per due giorni di fila. In una sorta di piramide dei bisogni, le abitudini non sono certo al primo gradino. E il secondo Pericle lo aveva visto solamente da sotto. Ma ora le cose erano cambiate e Pericle si era subito abituato all’impennata delle sue quotazioni in quella strana borsa che è la vita. Gli umani gli riconoscevano il fatto di averli in qualche modo risarciti dalle angherie di Dario. Il Prof, in particolar modo, viziava e vezzeggiava Pericle ogni qual volta si presentasse all’uscio di casa: poteva entrare, dormire e mangiare quando e quanto volesse. Lo ascoltava sproloquiare discorsi su democrazia e Atene di cui non capiva ovviamente nulla. Aveva preso, appunto, l’abitudine a sdraiarsi in una poltrona a fianco della stufa, le zampe sotto il corpo e la testa incassata nel petto. Fissava quell’uomo gesticolare e sputacchiare come si osserva un albero sferzato dal vento. Quando il sole scaldava le ore del mezzogiorno Pericle saliva su una loggia e dormiva sul muretto. La notte la passava in una cantina in sasso, al calduccio di un giaciglio che una vecchia vedova aveva approntato per lui tra damigiane e arnesi che nessuno usava da generazioni. E poi c’era il bar, la sua abitudine pomeridiana, dove non sarebbe mancato un solo giorno della sua esistenza. Insomma, era bastato assai poco per trasformare un gatto timorato dalla vita e martoriato dal destino in un essere felice e orgoglioso.
Gli altri gatti non lo infastidivano da tempo. Il solo fatto di averlo più volte visto in compagnia del gatto grigio gli aveva fatto scalare le gerarchie della comunità felina. E le gatte, che prima lo schifavano come fosse stato portatore di chissà quale tara ereditaria da trasmettere a potenziali cucciolate, talvolta alzavano la coda al suo passaggio. Il gatto grigio, un tempo cagione di lutti e rancori, ora lo accettava come compagno di scorribande. Pericle, che prima lo avrebbe volentieri osservato smembrato da una ruota di macchina, quando percepiva la presenza del grigio in paese abbandonava l’abitudine alla quale stava adempiendo e correva da lui. Aveva imparato dal grigio tutto quello che la madre non gli aveva insegnato e la natura consegnato in dotazione. La sua compagnia era più importante delle abitudini, dei discorsi del Prof su Atene e Sparta, delle gatte. Era essa stessa gran parte dei tempi che stava vivendo. L’età di Pericle.
A metà pomeriggio Pericle se ne andava al bar, accettava carezze, resti di cibo e battutacce sulla sua coda storta da parte di giocatori di carte e bevitori seriali, donne appassite abbandonate da tutto e tutti fuorché dal tabacco e dal gioco d’azzardo. Quindi si sedeva sulla sedia rossa “quella di Pericle” accanto alla stufa e fissava ora la Tv, ora uno degli astanti. Fu un giorno in cui si trovava lì seduto che vide Briseide per la prima volta. La tv trasmetteva immagini dall’India. C’erano uomini, tanti uomini, che si immergevano nel sacro Gange. L’acqua era putrida.
– É più pulita la merda che questa gente qui, te lo dico io – disse Cimone, un passato a riempire auto di benzina e un presente a riempire sé stesso di vino e rabbia.
– Non la fare grossa, Cimone. Là loro cultura è quella lì. Cosa capisci te che sei più ignorante di un tavolo marcio – rispose qualcuno buttando giù un sei di spade.
– E che cultura è fare il bagno tra gli stronzi che galleggiano? Io sarò anche stupido ma a me non mi ci avete mai visto nuotare nel letame. Se è religione perché non si fanno una chiesa e ci pregano dentro? La verità è che quella gente lì sta bene così, a sguazzare nella merda – Cimone si voltò verso Pericle – É più pulito questo gatto qui che pure c’avrà più pulci che anima – concluse indicando il felino.
– Trattalo bene a Pericle, Cimone, che vale più di te – ribattè l’uomo delle carte.
Ma un tizio al bancone venne in soccorso di Cimone – Non fare l’uomo di cuore, l’intelligentone. Cimone ha ragione – svuotò il francesino di vino e continuò – Poi vengono qua e ci fanno ammalare tutti. Guarda lì che schifo, guarda come si tirano l’acqua. Bravi, bravi – e finse un applauso.
Pericle iniziò a pulirsi le zampe e poi passò al corpo, quasi avesse capito l’argomento della diatriba in atto. Cimone lo vide – Ecco, pure il gatto è meglio di quei luridi. Guarda, guardate – e poi fu un tripudio di bravo, olè, mani sul tavolo, cori di approvazione per il gatto e di scherno per l’India intera. Erano tempi così, qualsiasi cosa facesse quel gatto, risultava vincente. Il fato pareva volerlo ricompensare degli anni nella selva, della solitudine della baracca del fiume, della fame e della paura. Nell’euforia generale qualcuno si avvicinò a Pericle per portarlo in un improvvisato corteo trionfale tra fiaschi, carte, salami e altri insulti alla gente del Gange, ma il gatto non era di quell’idea e guadagnò l’uscita. Giunto sull’uscio della porta del bar si incrociò con Briseide. Muso a muso. Entrambe le zampe sinistre anteriori sospese e piegate.
Briseide era la nuova gatta di Fidia, la proprietaria del bar. L’aveva ereditata da una nipote che era partita per l’Erasmus e non sapeva dove lasciarla. Fidia era divorziata e aveva due figli oramai adulti. “Ti farà compagnia, zia”. “Un par di balle, avevo detto mariti e gatti mai più”. Ma poi aveva deciso di tenerla. L’avrebbe lasciata al bar e poi che se la sbrigasse da sola. Briseide aveva tutto ciò che una gatta deve avere per essere appetibile agli occhi di un gatto maschio. Che non erano i colori bianco e nero o il taglio degli occhi, ovviamente. Era una gatta florida, dai movimenti sinuosi e il miagolio invitante. Ma Pericle queste cose ancora non le poteva sapere, essendo la prima volta che la vedeva. Rimase tuttavia stregato da quella coda verticale, dagli odori del suo corpo e dal desiderio che mai come allora aveva sentito accarezzargli ventre e genitali come una delicata piuma di uccello.
Allora, mentre nel bar c’era chi aveva capito l’inizio del corteggiamento felino e incitava Pericle ad aprire in due la bella micia e chi azzardava paragoni arditi tra gatta e padrona, iniziò un lungo corteggiamento per le vie del paese. Ogni tanto la gatta si fermava e strusciava a terra con la schiena e miagolava suadente. Pericle le si gettava addosso (anche questo aveva imparato dal grigio) ma lei era lesta a respingerlo e a correre via e lui dietro a inseguire. E così per tanti metri e tante strade e vicoli e piazzette finché Briseide non imboccò una strada chiusa che terminava su un muro dove la gatta spalmò il fianco sinistro del suo corpo fino ad aderire completamente a pietre, muschio e calce.
Quella sera Pericle perse di vista le sue normali abitudini e corse giù per la scarpata. Passò a fianco della tana in cui aveva vissuto i primi mesi di vita, continuò verso il fiume, sfiorò la baracca che gli aveva fatto da giovanile riparo e corse ancora e ancora. Si fermò solamente in riva al fiume. Il sole era una palla rossa ormai prossima al riposo. Una leggera brezza accarezzava gli steli e scherzava con le sue orecchie rosse. Erano tempi gloriosi. Era l’età di Pericle.
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