Le albe di Al (parte I)
Giovedì. Il terzo del mese. Si alza prima di tutti, Alan J. Ritter, detto Al. Sono solo le 5 di mattina, ma è il giorno giusto, e l’orario giusto, per svolgere il suo lavoretto. Che poi non è un lavoro, è piuttosto un’abitudine di cui da anni non riesce a fare a meno. Proprio in questo mese ne ha compiuti cinquanta e ormai quindici lo separano dall’ultima volta in cui è salito su un palco. Quindici gli anni che Al non prende in mano una chitarra, eppure era un fenomeno. Non ha voluto neanche cedere alle richieste dei vicini con figli in odore di notorietà, o magari solo in caccia del rimorchio facile; se suoni uno strumento le chances aumentano vistosamente. Gli avevano chiesto di fare lezione, ma niente. Lui è fatto così, ha sempre visto tutto bianco o nero. Una volta che inizia a fare una cosa, non ha ripensamenti. La sua fama lo aveva seguito fin nell’elegante sobborgo californiano in cui era andato a vivere dopo aver incontrato Vicky, conosciuta in uno degli alberghi dove sostava durante i tour. Lì lei prestava servizio come cameriera ai piani. Era bellissima, Vicky. Giovane, tanto più giovane, e solare; non li conosceva affatto, lui e la sua band. Uno stile grunge sofisticato, un misto tra i Nirvana e gli Alice in Chains. Lei, giovanissima e di origini messicane, ascoltava solo disco e musica latina, all’epoca. Ora vivevano da benestanti con due gemelli di otto anni, grazie ai guadagni miracolosamente scampati al consumo di cocaina e vizi assortiti, nel tempo. Al aveva sempre pensato che Vicky fosse stata la sua salvezza verso un’esistenza regolare e pulita. In realtà era stata di più la paura di perdere il controllo del suo corpo e della sua vita, a salvarlo dall’autodistruzione. E in più erano iniziati i dissapori con la band. E anche il ricordo di quella maledetta sera. Doveva cambiare, la sua vita. Così aveva deciso di recuperare la sua laurea in informatica e si era fatto assumere in un’azienda. Ma tanto per fare qualcosa, perché i soldi li aveva già. Allunga una mano per silenziare la sveglia e incontra il muso di Bella, il cucciolo di golden retriever che Vicky aveva regalato ai figli lo scorso Natale, e che da allora lo seguiva come un’ombra. Bella aveva saputo fin da subito di appartenere a lui, invece. Nella stanza avvolta dalla penombra, Al si muove a tentoni seguìto dall’angelo scodinzolante. Esce di casa in vestaglia, attraversa il giardino tra i brividi di freddo, dà uno sguardo alle rose bianche curate alla perfezione dalla romantica Victoria, ha una fitta di rimorso nel ricordare le volte che l’aveva tradita, durante la precedente vita da star e poi in ufficio con qualche collega piacente e disponibile. Ma senza alcuna importanza, e si dava da solo l’assoluzione, era uno dei modi per far passare il tempo, le ore in ufficio non passano mai… Arriva davanti alla dépendance-studio in cui si rifugia spesso. In realtà è una specie di grande ripostiglio pieno di libri, bauli di foto, cianfrusaglie e giochi abbandonati dai ragazzi. Ci sono anche un giradischi per vinili, una tv a transistor e un vecchio lettore VHS; un dinosauro a cui Al è molto affezionato. Si sorprende a pensare di sentirsi molto più eccitato all’alba di ogni terzo giovedì a infilarsi in quel buco polveroso pieno di rottami che in un letto insieme alla troietta di turno. “Sto invecchiando, probabilmente”, dice a sé stesso specchiandosi nello schermo spento della tv. Bella gli gira intorno festante, ha afferrato un pupazzo coi denti e vorrebbe giocare ma lui con un paio di parole ferme la manda a cuccia sotto la poltrona. Accende tv e lettore. Tira fuori da un baule una videocassetta senza scritte esterne, tra centinaia di altre la riconosce al volo, e la fa partire. Si butta a peso morto sulla poltrona, ha ancora sonno, e lascia penzolare una mano. Bella abbandona il pupazzo per concentrarsi a leccare la mano del padrone che intanto trema per il freddo e l’adrenalina. Conosce a memoria quella VHS. La registrazione del suo ultimo concerto, quindici anni fa, ad Austin, Texas, poco lontano, un concerto eccezionale. Era il terzo giovedì del mese; lui e il gruppo fatti a bestia ma pervasi di grazia divina. Solo che all’ultima canzone Al aveva dimenticato i testi, stravolto la melodia e preso una stecca notevole. Era troppo fatto, davvero. E da lì in poi l’inizio della guerra con i compagni, quindi il suo tacito addio alle scene. Non poteva fare a meno di rivedersi, ogni terzo giovedì, e ammalarsi di ricordi. Stavolta però il video tarda a partire. “Come è possibile”, pensa; lui conosce a memoria anche il minutaggio, ormai. C’è qualcosa di strano. Si alza di scatto; Bella ha un guaito di preoccupazione. Si piazza in piedi davanti davanti allo schermo, che vede improvvisamente illuminarsi di una nebbia grigio – lattiginosa. Comincia a distinguersi un complesso di fabbricati industriali, piuttosto bassi e ampi, molto simili tra loro. Hanno l’aspetto di vecchi studi cinematografici abbandonati. Ma è un posto che non crede di conoscere. A un certo punto, da uno degli edifici sembra staccarsi una figura umana che regge un cartello. E’ troppo lontana, per poter leggere la scritta. Si intuisce a malapena che indossa una specie di saio da frate. Al crede di sognare; fa partire più volte la cassetta in preda all’agitazione e più volte ottiene lo stesso risultato: buio per tre minuti, poi tre minuti di apparizione del fantasma in tunica e poi parte il solito concerto. Vorrebbe farlo vedere a Vicky o a un amico, ma qualcosa gli dice che non sarebbe una buona idea. Decide che prima di andare al lavoro porterà il VHS in qualche centro specializzato, ne conosce molti. E così fa; prima di andare al lavoro affida la cassetta alle cure degli esperti. E gli esperti accuratissimi, anche perché carissimi, gli consegnano il giorno dopo il seguente responso: la figura in lontananza è in effetti vestito da frate, ha il viso in ombra grazie al cappuccio, quindi irriconoscibile, tra le mani ha un cartello con la scritta: IL PROSSIMO APPUNTAMENTO SARA’ QUI ALLA STESSA ORA E AL SOLITO GIORNO, IL MESE PROSSIMO. IL POSTO È INDICATO NEL TESTO DELLA TERZA CANZONE IN SCALETTA. Ha tempo, Alan, di decidere. Se andare o meno. La precisione su particolari abbastanza segreti e le modalità di manifestazione del messaggio lo inquietano molto. Ma è tormentato dalla curiosità. Prende il tempo per decidere; e il mese successivo si ritrova a prepararsi per quell’incontro inquietante. All’alba di un terzo giovedì. Dopotutto ha visto la morte in faccia molte volte, non è il momento di avere paura. Aveva preparato i vestiti nello studio da giorni. Si aspetta di incontrare un frate e quindi decide di vestirsi in netto contrasto, elegantissimo. Completo doppiopetto blu, come i suoi occhi miopi, polsini chiusi da gemelli d’oro, barba e capelli freschi di barbiere. Guardandosi nella specchiera a parete gli scappa una risata di scherno; davvero si sente un pinguino imbalsamato. E pensa che almeno sotto i polsini nasconde bene le braccia arabescate da antichi tatuaggi e antichi buchi. Magari il prete potrebbe non gradire…