Pericle coda storta e bastardo – IV – Il tiranno deve morire
Ciò che non poterono genetica ed educazione materna, poté la fame. Se durante l’infanzia e la prima giovinezza la paura non gli aveva permesso di avvicinarsi a gatto o persona che fosse, ora Pericle non ci stava a pensare troppo e se lo stomaco ordinava, la mente taceva e le gambe obbedivano. Il risultato di una tale apertura verso l’esterno era tuttavia quello che Pericle aveva pronosticato nei primi mesi di vita, quando per la tal ragione si era tenuto ben lontano dal resto del mondo: un sacco di botte. Ogni sortita in città finiva con una zampata tra capo e collo, il manico di una scopa sulla schiena, un botolo ringhioso alle calcagna. Facevano male anche a stomaco vuoto le botte, per intendersi, e tuttavia diversamente da quanto aveva creduto da cucciolo, per necessità ci si abitua un po’ a tutto in questa vita. Il suo battesimo era poi stato il peggio che un gatto si potesse aspettare in termini di mazzate. Ecco, se c’era una cosa di cui Pericle avrebbe fatto volentieri a meno, queste erano le zampe del grigio sul suo corpo. Era capitato altre volte. Si trattava di vere e proprie razzie da parte del gatto grigio. Questi doveva avere un dono innato, un vero talento soprannaturale nel captare le poche volte che Pericle riusciva ad azzannare un topo o qualcos’altro nei pressi del fiume, dove tutt’ora aveva la sua tana nella baracca. Fatto sta che il gatto grigio compariva dal nulla e si avventava sul povero Pericle. Un paio di zampate ben assestate ed ecco il giovane gatto bianco e rosso correre tra le sterpaglie del letto del fiume. La bocca vuota, lo stomaco brontolante e la testa piena, questa si, di cattivi pensieri.
Tutto ciò che Pericle poteva sperare era che il grigio finisse sotto le ruote dell’auto. Ma sebbene l’odio che nutriva fosse tanto, questi non sono pensieri da gatto. Oppure tra le fauci di Serse, il terribile e mastodontico cane che talvolta girava libero e indisturbato per le vie del paese. Il terrore dei gatti, degli altri cani e il motivo di infinite rimostranze da parte dei paesani. Il suo padrone, soprannominato “Dario il tiranno”, oppure semplicemente “il bastardo”, era considerato dai suoi compaesani il più grande figlio di puttana dell’intera vallata. Alcuni, in serate di taverna rese aspre dal vino e arcigne dalle bestemmie, si spingevano a sostenere che pure nelle vallate a fianco non c’erano figli di buona donna di una tale risma. – Ma dimmi un po’, peggio ancora di quel figlio di troia di Toni il fabbro? – chiedeva allora uno degli astanti con una sigaretta di trinciato in bocca e i baffi gialli di vino e fumo – Peggio, peggio davvero – rispondeva il relatore e quindi si versava un bicchiere di vino rosso, bestemmiava, beveva tutto di un fiato, batteva il bicchiere sul tavolo e infine concludeva – Dio che crepi entro domattina.
– Il cane? – ribatteva il tizio della sigaretta, che in cuor suo non voleva certo una risposta affermativa.
– No, lui. A quel cane di merda invece ci penso io, uno di questi giorni.
Ma non succedeva nulla di tutto questo, in realtà. Era gente così, quella del paese. In piazza sorrideva, nel bosco fornicava, nelle taverne malediceva, in casa imprecava. Pareva quasi che la loro vera indole, che fosse rabbiosa, lussuriosa o autodistruttiva, si disvelasse solamente lontano dai raggi del sole, riparata dalle frasche della selva sotto il poggio o dalle umide mura a volta delle taverne del paese. Grandi proclami, faide e giuramenti a Dio e agli avi finivano innocui dentro i tombini insieme ai reflui dell’acqua piovana e delle damigiane. Era un fare comune, declinato differentemente a seconda dell’età, delle propensioni e della frustrazione accumulata.
Per quanto riguarda Dario, occorre dire che era uno dei pochi a non conformarsi a questo modo di vivere paesano. Le sue qualità, tuttavia, si esaurivano in quanto si è appena detto. Del prossimo, uomo o animale che fosse, non aveva più rispetto che delle convenzioni sociali. Faceva tutto quanto a sua disposizione per recare fastidio ai vicini, imbarazzo ai passanti, offese a vecchi e bambini. Pisciava sulle grondaie nelle calde sere d’estate, gettava mozziconi nelle fioriere, stuzzicava il cane per farlo latrare agli orari più inconsueti, ricordava ai passanti i difetti fisici più vistosi con una certa attenzione alle tare estetiche dei bambini, che se le portassero appresso nei difficili anni a venire. E poi sguinzagliava il cane Serse in spedizioni punitive allo scopo di levare la compagnia di un tenero animale domestico a una vedova sola, lanciava maledizioni e minacce a chi si permetteva di portare rimostranze, perseguitava i deboli di carattere e denunciava i disperati che tentavano di mettergli le mani addosso. Davanti alla casa, situata in un vicolo stretto del centro del paese, c’erano sempre ciotole di cibo. Non erano per il cane, che quando non era in spedizione punitiva stava fisso in casa, erano vere e proprie esche per avvicinare altri animali da legnare o da dare in pasto al tiranno. Nessun gatto era così folle da passare da quelle parti.
Nessuno tranne due: il grigio e Pericle. Se nel primo caso era per arroganza e per un senso di sfida dopo aver preso una delle poche bastonate della vita sua, nel secondo caso era un misto di incoscienza e rincretinimento da fame cronica. A fianco di Dario abitava un altro uomo. Lo chiamavano Prof, perché un tempo, prima della pensione, era stato insegnante. Questi aveva nel tempo dovuto subire le peggio angherie da Dario e Serse. Abitava a piano terra, in una vecchia casa di sasso con l’ingresso sulla strada che aveva l’abitudine di lasciare aperto. Quando passava di lì Pericle talvolta lo vedeva con un coltello da cucina intento a colpire freneticamente un tagliere di ulivo posato sul tavolo.
– Ti ammazzo, figlio di troia, di apro i buzzi, l’altra volta ti è andata bene che mi hanno portato via ma stavolta ti squarto e le budella se le mangia quel cane come è vera la Madonna! E poi gli taglio la testa pure a quello schifoso e la butto nel pattume che la tritano con i rifiuti – e così dicendo simulava l’omicidio sul legno di ulivo e sbavava tutta la sua incontenibile ira. Pericle lo osservava da fuori senza capire il perché di un tale rancore. Una sera lo vide in ginocchio. Commentava una delle ultime malefatte di Dario e picchiava entrambi i pugni sul divano. Si girò di scatto, come avesse percepito la presenza del gatto.
– E tu chi cazzo sei? Che c’hai sempre da stare lì a guardarmi? – quindi si alzò, inforcò gli occhiali che teneva sul tavolo e si avvicinò a Pericle. Questi fu in procinto di scappare.
– No, non scappare. Fatti vedere un attimo – Si chinò per scrutare meglio il gatto – pare quasi che c’hai un elmo sulla testa. Che buffo. Te l’ha mai detto nessuno? Sembri un gatto della Grecia. Si, proprio della Grecia antica – quindi si alzò, sbuffò e ripose gli occhiali sul tavolo – Te l’hanno mai dato un nome? Non credo. A vederti non mi sembri di nessuno. Va bene, te lo do io il nome: Pericle. Vai Pericle, vai e distruggi il tiranno, quell’uomo schifoso deve morire ora – disse gridando le ultime parole. Battè un pugno sul tavolo.
Pericle ora aveva il nome che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Ma avrebbe preferito mangiare un pezzo di formaggio e rimanere innominato. Il Prof lo guardò per una decina di secondi, quindi disse – Si, vabbé, sicuramente.
Un pomeriggio tardo e ormai scuro Pericle vide dei croccantini in terra davanti alla casa di Dario. Erano messi in fila a formare un percorso che portava a una vecchia porta vicino a quella d’entrata, ma Pericle non ci fece molto caso e ne divorò uno dopo l’altro fino a superare la porta. Fu allora che questa si chiuse dietro di lui. Pericle si trovò in un ripostiglio illuminato da una lampadina a tungsteno. Sotto la lampadina la testa riccioluta di Dario. Scese con lo sguardo verso il braccio destro e quindi all’appendice di questo: un lungo bastone con un retino da pescatore di grosse dimensioni all’estremità. Dentro il retino stava imprigionato il gatto grigio. Pericle lo guardò negli occhi e scorse un terrore profondo che non gli riconosceva. Disprezzo, cattiveria, terrore mai. Sentì ringhiare e si accorse che dietro l’uomo c’era, ancora legato alla catena, il terribile Serse. Non era difficile capire cosa l’uomo avesse progettato e tuttavia non c’era più nulla da fare. Con lo stesso trucco dei croccantini l’uomo aveva prima immobilizzato il più pericoloso dei due gatti che ancora si azzardavano a visitare quel vicolo e quindi aveva atteso l’altro, che reputava meno capace e pericoloso.
Un errore tipico dei tiranni, quando è ormai venuta la loro ora, è sottovalutare la disperazione della plebe. Pericle spiccò il volo e si arrampicò prima sulle gambe e poi sul corpo fino a raggiungere il viso di Dario. E qui infierì sul volto, sulla testa, ovunque i suoi artigli arrivassero a colpire. In quei colpi tremendi c’era l’eco di mesi di paura, di botte prese, mortificazioni, angosce accumulate nella sua ancor giovane vita. Nel frattempo il gatto grigio si liberò e riuscì ad aprire la porta. Pericle uscì anch’esso e lasciò l’uomo a terra con il volto insanguinato.
– Bastardo! Gatto di merda! Mi hai rovinato bastardo! – urlava e piangeva. Serse latrava inorridito. Il trambusto fece uscire il Prof che subito capì la situazione e urlò – Grande Pericle, grande! Così si fa! Lo dovevi ammazzare quel bastardo!
Pericle corse via veloce. Si fermò solamente quando il fiato glielo impose. Nello stesso punto si era fermato il gatto grigio. Pericle lo guardò. Non c’era più terrore nei suoi occhi. Ma nemmeno la cattiveria e il disprezzo con cui era solito guardarlo. Rimasero lì a lungo, in silenzio, a recuperare fiato e ordinare emozioni. La quinta delle nove vite di Pericle era spirata.
PUNTATA PRECEDENTE: III – Botte da orbi