Pometrò, parole per il teatro: Rita Stanzione
Pometrò è uno spazio aperto, un luogo libero per gli autori, gli scrittori e i poeti di “Poesie Metropolitane”. Una rubrica dedicata “Alle parole per il teatro”: opere inedite: una poesia, un componimento in prosa, un racconto oppure una sceneggiatura che possa essere pensata per il teatro.
Armati di bellezza e poesia, ci auguriamo che questa rubrica possa essere un momento di fuga e di riflessione e di distacco dal cumulo informativo dal quale siamo bersagliati ogni giorno e al quale siamo soggetti.
La poetessa di oggi è Rita Stanzione
Biografia: Rita Stanzione, nata a Pagani e vissuta un periodo a Milano, risiede attualmente a Roccapiemonte (SA). Docente, con alla base una formazione pedagogica, completata da studi in campo scientifico. Oltre che di poesie, è autrice di haiku e brevi racconti. Molti suoi testi sono presenti in siti e riviste di letteratura nazionali e internazionali, anche tradotti in altre lingue. Collabora con il Movimento letterario UniDiversità di Bologna, quale autrice della Collana viola e della rivista tematica bimestrale Quaderni.
Opera: EN PASSANT
“Ora è tempo di ritrovare i miei appunti, farli sfociare tutti insieme”. Sarà una sola strada e lunghissima
segnata da ogni stravaganza, offuscamento della gioia, guizzo benefico, sembianze comparse
all’improvviso, tutto ciò che mi è passato in mente e ho saputo codificare e imprimere per sempre sulla
carta – macché, il per sempre è un’illusione ubriaca che aiuta a non disfarci, a non sfumare. Allora mi basta anche un lasso breve, il tempo che oggi rubo all’ordinario: sguscio da una porta consumata dal cigolio dell’abitudine e mai messa a nuovo. Voglio rivivere ogni soffio, confessione, vagheggiamento, coscienza del limite, straripamento, caduta, risalita. La verità in un’onda inginocchiata che travolga anche me sollevandomi da tutto, compreso il peso del mio esistere. Un oblio? E sia, ma un oblio che riempia questo buco tremendo per restituirmi la me di tutta la vita passata, un oblio di superficie per non dimenticare.
Matte divagazioni le mie, dettagli incantati con occhi guerrieri a rimbalzare nei riflessi di se stessi. E dove
sono stata a rifugiarmi, mentre il vento contrario mi spingeva in aborriti palazzi d’ombre? Ovunque intorno la baldoria del cemento battuto, calpestato, gremito, a configgere finanche le ossa. Eppure io – essere stranito e incomprensibile – non ho fatto niente per fuggire. Sono stata muta ad ascoltare, cieca a
guardarmi le punte dei piedi muoversi nei luoghi sbagliati, annebbiata in una giostra autistica con la paura del vociare strillante di altri, l’incubo dell’errore, le idee brillanti dentro me parallele al passo e che mai l’accarezzavano. Quanta fantasia a implodere in cunicoli! Eppure mentire mai, non ci ho provato neanche quando mi inventavo ideali. Sofismi sì, e quanti, per raggirare il mondo per niente favorevole. La solitudine in mezzo a tante facce, guida costante, come avrei potuto continuare senza bardarmi di una resistente corteccia? A tradire è l’ombra, a volte sospesa a mezz’aria mostra chiaramente di non volermi seguire.
Inerme, esposta, autobiografica come nessuno, petizione del dissenso. Anche nel suo caso sono costretta a pensare “che importa?”. Anche da essa, la più vicina fattezza, sono portata a estraniarmi. Che importa? Mi piove sul viso mentre assorta non so dove andare. Che importa? Lo penso forte, lo grido dentro e mi sale una gioia insensata dal sangue. È come combattere sentendosi vivi in un flusso che torna, come l’acqua, sempre la stessa e mai morta. Capace di evadere da una pozza di fango, dai rumini dei buoi, da una radice torta, dai veli della notte. Salvifico “che importa?”. Ora è dato anche a me un passaggio verso insperate altezze, non sono nel luogo sbagliato, sono la transitorietà che fa il giro del mondo fuori dal mondo, tutti i fili della mia mente sono tagliati e riallacciati. Percorsi da divisioni naturali degli eventi, con un forte collante che può rimettere tutto a posto, ricostruire la storia di un movente emotivo in cerca di spiegazioni.
Tutto a posto. Mi distacco da tutto e vedo me stessa. Sul marciapiede, gli occhi lontani, presenza dimezzata.
Quasi senza equilibrio, sto urtando un passante. È un volto che conosco: ma certo, è un vecchio amico! Il
suo viso però è saldamente incollato a un piccolo libro che sfoglia avidamente. Non mi vede, sente l’urto e non si scompone, tanto preso da Il maiale che cantava alla luna – così è scritto sulla copertina. Tutti
possono essere poeti? e gli animali più di noi – di noi dotati del logos – ma certo! Sfiorano a pelle ogni
verso, si lasciano colpire e tremano, mugolano in vocalizzi, si lasciano andare. E noi a cercare mediazioni,
traduzioni, a curare sintassi capillari per provare sensazioni già visibili allo sguardo dell’universo. Ascolto la mia voce senza briglie, l’unica capace di farsi comprendere fino in fondo, ma è senza fondo. Un mucchio di braci che sfociano all’aria e nel tremore avvolgono, e presto soffocanti. Poi di nuovo in grembo, è una pista di fuoco verso un paese sotterraneo, un mare incandescente dove lascio la barca delle certezze e mi inabisso. Voce, carne, logorio. Andamento ciclico e discendente, le braci infine sono un pugnetto misero che muore, finisce. Cosa abbiamo guadagnato, imperterriti ad accendere fuochi? Cenere, materia impalpabile del silenzio. La stanca solitudine di miliardi di individui ad affollare la Terra. Un punto microscopico ognuno, grande solo per sé. Il filo non esiste più, nessuna logica in aiuto. La mia biografia fa fatica a nascere. Meglio le storie di eroi, dove mai potranno reggere le mie futili azioni. È meglio che strappi la pianticella prima che si pieghi sotto i passi. Che lasci ogni memoria dov’è andata ad affossarsi. Che importa? Ma che bel pavé, ordinato e composto, in questa piazza che si svuota. Amica mia en passant.