Pericle coda storta e bastardo – III – Botte da orbi
Tempo addietro, quando ancora era un piccolo e indifeso gatto, Pericle aveva già sperimentato il terrore della solitudine. Era una giornata ventosa di inizio primavera e tutto preannunciava un imminente temporale. Rannicchiato nell’anfratto di roccia che fungeva da tana, il piccolo felino tremava più per la paura che per il freddo. La madre si era allontanata da un po’ di tempo e Pericle si affacciava quel tanto che bastava per scorgere la sagoma della gatta in arrivo. Ma la madre non arrivava e Pericle iniziò a miagolare con quanto fiato avesse nei piccoli polmoni. E con più forza miagolava e meno sentiva il rumore dei rami sferzati dal vento e di quelli spezzati che rovinavano a terra. Poi chiuse gli occhi, che tanto nulla di ciò che vedeva lo poteva in alcun modo tranquillizzare e si concentrò solamente sulla sua disperata richiesta di aiuto. In qualche modo, tutto ciò aveva funzionato. Quando oramai le corde vocali iniziavamo a dolergli aprì gli occhi e vide la madre dinnanzi a lui. Le saltò addosso, rotolò assieme a lei, infine emise suoni di giubilo che nulla avevano a che vedere con il miagolio di prima.
Ritrovatosi nella stessa situazione a distanza di mesi e con diversi centimetri in più sulle zampe e la schiena, Pericle iniziò a miagolare con forza, memore di quello che era stato il primo ricordo della sua vita. Era passato più di un giorno da quando la madre si era allontanata. Gli fu ben presto chiaro che il miagolio, che aveva perso i toni alti e si era fatto profondo, non aveva lo stesso potere taumaturgico e il vento non era che brezza che faceva delicatamente cadere le foglie in una assolata giornata autunnale. Insomma, tutto era cambiato. Smise di miagolare e fissò a lungo i cespugli, poi chiuse gli occhi e ascoltò il brontolio dello stomaco. Infine si alzò e brancolò per il sentiero da cui aveva tante volte visto ritornare la madre.
– C’è un gatto, guarda – con la mano libera indicò in direzione di un cespuglio alle loro spalle.
– Come, un gatto qui? Cosa ci fa un gatto qui? – si voltò ma non scorse nulla – Non è posto da gatti questo – continuò.
– Non è vero – ribattè l’altro scuotendo la testa – Ci si vede spesso quel gatto grigio, quello che a volte accoppa anche le galline in paese.
– Il biso? Quello non è un gatto, quella è una macchina da guerra – appoggiò la canna da pesca a terra, estrasse una sigaretta dalla tasca della giacca e la portò alla bocca – Ma dove sarebbe poi? Io non lo vedo – chiese mentre cercava l’accendino nei pantaloni.
– Lì, tra i cespugli.
– Ah si, è vero. Ora lo vedo – sorrise – non mi pare tanto bene in arnese.
– Ma no, è anche un bel gatto. Intendo potenzialmente, magari adesso non tanto. Più che altro è magro da far schifo – appoggiò anch’esso la canna da pesca e si voltò in direzione del gatto. Si inginocchiò e disse – ehi micio, che non ti piace mangiare a te? Sarà meglio che ti dai una scantatina o finisce che crepi.
– Buttagli un po’ del pane da pastura, vediamo che succede – disse il pescatore con la sigaretta – Questo è capace che mangia anche la merda se gliela butti – L’altro prese un po’ di pane raffermo da una bisaccia, lo fece a pezzetti e lanciò in direzione del gatto.
Pericle non mangiava da due giorni. Gli uomini erano un potenziale pericolo, tutto lo era per un gatto come Pericle. Ma il pescatore aveva detto giusto: qui o si rischiava qualcosa o si moriva e lo stomaco di Pericle questo lo capiva anche meglio della sua mente. Si gettò sul boccone più prossimo a lui e lo trascinò nel cespuglio dove lo divorò. Così fece poi con gli altri bocconi.
– C’ha pure la coda storta. Che gatto sfigato, Madonna – disse il pescatore con la sigaretta.
– E morto di fame. Bianco, rosso, coda storta e morto di fame.
– Anche un po’ scemo, dai.
– É giovane. Chissà che gli è capitato. Poi magari c’hai ragione tu. Anche un po’ scemo, forse.
Il fiume divenne il nuovo habitat di Pericle. Dormiva in una vecchia baracca di legno e lamiera in prossimità del torrente e mangiava quello che i pescatori gli portavano. Furono giornate lunghe e notti lunghissime. Lentamente alla paura si sostituì la noia. Osservare un pescatore, un uccello o nascondersi da un cane o altro animale poteva essere l’unico riempitivo della sua giornata. Ma per il momento andava bene così. E poi Pericle non conosceva altra vita che quella e se anche ci fosse stata un’altra vita possibile, la paura avrebbe avuto la meglio. Più che i pescatori e gli uccelli lo incuriosiva un suo simile, uno dei pochi che gli capitava di vedere da quelle parti. Era quel gatto grigio di cui avevano parlato i pescatori. Pericle lo osservava da lontano, né era spaventato ma anche attratto. Ammirava tutto ciò che lui non aveva: la sicurezza dei modi, la sfrontatezza con cui si avvicinava ai pescatori e dava la caccia agli uccelli, il portamento orgoglioso e il corpo pieno da animale sempre sazio.
Arrivò l’inverno e il fiume si fece troppo grosso per la pesca. Le giornate erano fredde e la fame ricominciò a farsi sentire. Ancora una volta lo stomaco poté ciò che cuore e mente non permettevano: rompere l’equilibrio e sfidare il mondo. Così Pericle si mise in strada e arrivò in paese. A sua memoria, non c’aveva mai messo zampa. Rimase impressionato dalla quantità di costruzioni affastellate una sull’altra, dal gran numero di persone e, soprattutto, di cani e gatti. Non aveva mai visto così tanti gatti come quel giorno. E così più che il cibo rimediò una discreta quantità di botte da un paio di simili a cui stava sottraendo il mangiare da una ciotola e quasi si fece azzannare da una cane per un motivo che invece gli restò alquanto oscuro. Ad ogni modo il suo ingresso in società fu a dir poco fallimentare. Uscì dal paese pesto, impaurito e praticamente affamato quanto prima.
Tentò di cibarsi con la carogna di un animale investito che trovò al lato di una strada, ma nonostante la fame non riuscì ad andare oltre qualche morso. Si diresse in fretta verso la baracca sul fiume. Tutto era andato storto e non c’era altro rimedio che isolarsi tra legno e lamiera, al riparo dal mondo e da tutto ciò che richiedeva capacità ben al di sopra delle sue possibilità. La fame era brutta cosa, ma il terrore che gli facevano quegli esseri là fuori era anche peggio. Entrò nella baracca dal solito pertugio senza prestare attenzione a nulla. Del resto, chi altri poteva trovare rifugio in un posto così sacrificato in pieno inverno? E fu così che quando alzò lo sguardo si ritrovò di fronte gli occhi spalancati del gatto grigio. Le interiora di un topo fuoriuscivano dalla sua bocca. L’arrivo di Pericle bloccò l’azione delle mandibole. A terra, sotto il mento, quanto rimaneva del topo. Pericle distolse lo sguardo dagli occhi del gatto grigio e osservò il topo dilaniato. Non era ridotto molto meglio della carogna, ma le carni erano assai più invitanti. Lo stomaco non si chiuse per la paura come avrebbe voluto il cervello. Senza pensare a cosa stesse facendo Pericle abbassò la testa e affondò le fauci nel topo. Il gatto grigio rimase qualche secondo a osservare quella scena incredibile che stava avvenendo a un centimetro dalla sua faccia. Da tempo immemore nessun gatto aveva osato tanto. Quel gatto bianco e rosso doveva essere stupido, disperato o entrambe le cose. Il grigio spalancò le fauci e lasciò cadere le interiora a terra. Poi iniziò il finimondo.
Se qualcuno si fosse appropinquato alla baracca in quel momento difficilmente avrebbe pensato che quel trambusto lì dentro fosse opera di due gatti. Magari un gatto sì, poiché si sentivano i versi tipici dei felini in lotta, ma l’altro contendente doveva essere una cosa tipo un volatile. Ecco, questo avrebbe pensato lo spettatore esterno: un gatto che tentava di fare la festa a un passero, il quale tentava in tutti i modi di guadagnare il cielo e la libertà. E invece erano effettivamente due gatti, uno dei quali volava in ogni dove non tanto per cercare la libertà, ma spintovi dalle tremende zampate dell’antagonista. Se la disputa ebbe fine fu solamente perché il gatto grigio non ritenne di infierire oltremodo. Quel giovane gatto magro con la coda storta non aveva reagito, non si era riparato dai colpi se non all’inizio del pestaggio. Pareva quasi che a un certo punto si fosse lasciato andare al triste destino di morire ammazzato. Amen. Il gatto grigio lo osservò giacere semisvenuto contro una parete della baracca. Controllò il respiro dopo la battaglia più assurda della sua lunga esperienza di gatto randagio. Prese il topo e se ne andò via, più inquieto che fiero. Pericle cadde svenuto li dove lo avevano lasciato le zampate del grigio. O forse, solamente, si addormentò.
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