Pericle coda storta e bastardo – II – La selva oscura
– Che c’è? Che hai?
– Ho sentito un rumore – un attimo di silenzio – tu no? Niente?
– No, niente – ancora silenzio – ma che rumore?
– Un rumore… boh. Qualcosa tra i cespugli. Che ne so. Senti, senti, non dirmi che non l’hai sentito.
– Boh, forse adesso si. Oh, cazzo, non mi fare cagare addosso. Mi sto cagando in mano – si agitò sul motorino, una mano a stingere qualcosa nella tasca dei pantaloni.
– Ma sei coglione? Paura di cosa, scusa? – rise.
– Paura di cosa? Paura di cosa? Degli sbirri porca puttana, degli sbirri! – il motorino si mosse sul cavalletto come fosse un cavallo a molla in un parco.
– Ma che sfigato sei, oh! – rise di gusto fino a perdere il respiro – gli sbirri nascosti dentro i cespugli in questa merda di selva. Quanto cazzo sei paranoico? Fuma meno, oh!
– E allora che cazzo è?
Il paese sorgeva in prossimità di un fiume, tuttavia nessuna casa si trovava a ridosso del torrente. L’agglomerato di case si era sviluppato su un poggio roccioso che declinava brusco su una piana che lo divideva dal fiume per una distanza di un chilometro circa. Se la parte della piana più vicina al letto del fiume era per lo più coltivata, quella a ridosso del poggio, sotto il paese, era invece boschiva. Dal poggio, alto non più di una quindicina di metri, scendevano irti sentieri che attraversando la selva portavano ai campi e al torrente. Quella piccola e rigogliosa striscia di bosco era da sempre il luogo dove i paesani andavano a fare le cose che altrove non era il caso di mettere in pratica: coperti dagli alberi, riparati per un lato dalla roccia del poggio, i ragazzini scoprivano le gioie nascoste negli altrui corpi, gli adulti riscoprivano le stesse gioie nei consorti di altri adulti e una popolazione eterogenea in termini di età vi si sollazzava con droghe più o meno leggere. Le prime sigarette, le prime canne e quanto ne seguiva per coloro che sceglievano di completare il cursus honorum delle sostanze illecite. Insomma, sebbene nessuno dei laureati del paese avesse deciso di dedicarvi una tesi di antropologia, la selva sotto il poggio era un vero e proprio luogo di iniziazione. In piazza, dove circolavano tante parole e pochi fatti, si diceva solamente: andiamo giù. A fare cosa? La risposta era nelle tasche di chi pronunciava la frase.
In questa selva di alberi cresciuti alla rinfusa nella speranza di un posto al sole e piccoli arbusti meno ambiziosi, in un anfratto della roccia del poggio aveva trovato ricovero la gatta e l’unico sopravvissuto al primo parto della sua vita: Pericle. Ivi l’aveva portata la disperazione e quell’istinto vitale che nel paese tutti pervadeva, uomini e animali. Certamente ben conscia del pericolo arrecato da volpi e altri mammiferi, ma tuttavia ancor più consapevole di quel fardello chiamato uomo che in un paio di minuti aveva reso vane le fatiche del parto. Quasi reso vane: c’era pur sempre Pericle. Sul quale, è il caso di dirlo, ancora nei primi giorni dello svezzamento la gatta non avrebbe scommesso un’unghia. Poi il peggio era passato, le zampe avevano iniziato a rinforzarsi, il pelo a crescere folto e rigoglioso, la colonna vertebrale ad allungarsi. La madre lo guardava e forse, talvolta, si persuadeva che tutto sommato ce l’avrebbe potuta fare a divenire adulto. Le incognite sul futuro di Pericle rimanevano tante: quel giovane gatto cresceva senza conoscere altri gatti, giocava solamente con la madre e nutriva timore pure per le foglie.
Prima ancora che i gatti, Pericle iniziò a conoscere gli uomini. Talvolta si nascondeva tra i cespugli e li osservava fare cose di cui non comprendeva pressoché nulla. Un giorno, ad esempio, vide due giovani esemplari, maschio e femmina, scendere il poggio per uno degli irti sentieri senza rivolgersi parola. Stavano volutamente distanti e entrambi tenevano lo sguardo fisso sui propri piedi. Raggiunta la selva piana, si fermarono. Ancora silenzio. Si misero uno di fronte all’altro, a un metro di distanza, gli occhi sempre alle punte dei piedi. Rimasero così un minuto almeno, senza proferire parola, con gote rosse e pugni stretti. Poi uno dei due mosse un passo e similmente fece l’altro. Un passo ancora e Pericle vide le punte dei piedi toccarsi e quando alzò lo sguardo anche le bocche si toccavano. Le punte dei piedi, le bocche e nulla più. Parevano scambiarsi il respiro, la femmina tremava un pochino e forse era lei a cui mancava l’aria e il maschio gliela stava insufflando. Un minuto e poi si staccarono. Il maschio sorrise, la femmina si portò il palmo della mano alla bocca e chiuse gli occhi. Infine ripresero il sentiero a ritroso. In silenzio, distanti. Vai a capire. Un paio di giorni dopo dallo stesso sentiero Pericle vide scendere una coppia di adulti. La femmina rideva, sosteneva di aver paura di farsi male dicendo cose del tipo: e se cado e mi faccio male che figura ci faccio? Cosa gli dico dopo? e ancora rideva e si bloccava e chiedeva aiuto emettendo esili gridolini. Tutta una cosa del genere fino al pianoro selvatico. Il maschio dava idea di non ascoltare nemmeno, pareva solamente avere una gran fretta di fare qualcosa. Ogni tanto si portava la mano all’inguine, come a controllare che qualcosa lì fosse al posto giusto. Appena il sentiero spianò il maschio diede una gran schiaffo nel sedere della femmina e gli disse: che chiappe che c’hai bella porcona. Lei emise una risata stridula e disse: smettila scemo, poi gli si gettò contro come se avesse perso l’equilibrio. I corpi si avvinghiarono come Pericle aveva visto fare a un serpente intento a stritolare un rospo. E le bocche, quelle bocche che aveva visto congiungersi con delicatezza negli esemplari giovani, qui parevano volersi divorare a vicenda e quando si davano requie era per permettere alle lingue di strisciare sulla pelle dell’altro come la madre faceva con Pericle. Infine i corpi caddero in un cespuglio e Pericle non vide più nulla. Udì solamente strani versi, simili a quelli di animali che lo spaventavano durante la notte. Vai a capire.
Così passava il tempo Pericle. Osservava vizi e piaceri degli umani. Si impigriva in cose che non gli era dato capire. Aveva imparato a riconoscere l’odore di tutti i resti che costoro lasciavano nella selva: mozziconi, hashish, fazzoletti intrisi di materie corporali, preservativi. Si faceva i muscoli arrampicandosi sulle rocce del poggio. Non conosceva altro gatto che non fosse la madre, la quale gli procurava tutto ciò gli servisse per vivere. Giocava con lei, che tuttavia col passare del tempo rifiutava sempre più le sue attenzioni. E anche questo, come le abitudini degli umani, Pericle non capiva.
– É un gatto – disse. Staccò un pezzo di carta da filtro e iniziò ad arrotolarlo – un cazzo di gatto.
– Ma come un gatto? Ma dove lo vedi?
– Oh, ma sei orbo oltre che paranoico? Lì, cazzo – e allungò la mano che teneva in pugno il filtro appena arrotolato.
– Porca puttana, è un gatto davvero – un attimo di silenzio, poi iniziò a ridere. All’inizio in modo scattoso, poi sempre più continuo. Una risata di stomaco, da fumatore di hashish.
– Che cazzo ti ridi, coglione? – contagiato, iniziò a ridere anch’esso.
– Ma non lo vedi? Guardalo cazzo. Che cazzo di gatto strano è?
A una decina di metri dai due giovani umani seduti sui loro motorini, Pericle se ne stava paralizzato accanto a un cespuglio. La curiosità lo aveva spinto fuori dalle frasche. Aveva sentito il rumore dei motorini, poi il vociare, infine quell’odore che gli era già capitato di sentire altre volte. Niente di nuovo eppure voleva vedere e sentire di più, meglio. E per la prima volta dal tempo in cui era nato e in pochi minuti aveva perso quattro delle sue sette vite, Pericle era stato avvistato dagli uomini. Le zampe erano radicate a terra, il cuore batteva forte. No, non c’era verso di rispondere al grido di allarme del cervello, muoversi, scappare.
– Ma cosa c’ha di strano, scusa?
– La coda, la coda è storta.
– Cazzo è vero – risata cantilenante – c’ha la coda storta davvero – leccò la cartina e accese il piccolo manufatto – E poi guarda i colori in testa – continuò.
– I colori? Che hanno? Sono bianco e rosso. Anche il gatto di mia zia era bianco e rosso. Ci sono tanti gatti con quel colore. Che cazzo ci vedi? Poi sono io paranoico.
– Non c’entra niente essere paranoici adesso, cazzo. Ascolta, guarda la forma che fanno, il disegno sulla testa.
– E quindi che forma sarebbe? Boh – strabuzzò gli occhi in direzione del gatto – Boh – ribadì.
– Sembra un elmo greco. Il rosso sembra disegnare un elmo greco sulla testa – e indicò con l’indice e medio. Tra le due dite era comparso uno spinello – Vedi?
– Un elmo greco? E come cazzo fai a sapere come è fatto un elmo greco? – distolse lo sguardo dal gatto e guardò l’amico.
– Studiato – disse. E aspirò dallo spinello.
– Chi, tu? Ma vaffanculo.
– La prof di italiano e storia è un pezzo di figa allucinante. Ma tanto figa – espirò il fumo e passò lo spinello all’amico che lo prese tra pollice e indice, controllò che fosse acceso a modo e quindi se lo portò alla bocca aspirando.
– Mah, sarà – disse – Ascolta – continuò – c’è qualche foto sui social di questa Prof?
Quando le gambe ricominciarono a rispondere ai ripetuti input di un cervello ormai terrorizzato da un tale blackout nervoso, Pericle corse verso l’anfratto. Lo trovò vuoto. La madre non c’era. Pensò che fosse in cerca di cibo e si rifugiò dentro. Passò la notte e il giorno successivo. La madre non sarebbe più tornata.
Quel giorno Pericle capì che da lì in poi avrebbe dovuto fare da solo. Tutto da solo.
E non sapeva fare niente che non fosse guardare gli umani nella selva. E si, erano cazzi e questo Pericle lo sapeva eccome.
PUNTATA PRECEDENTE:
I – Darwin è un cazzaro
PUNTATA SUCCESSIVA: III – Botte da orbi