A viso aperto
Scontrandomi a viso aperto con una platea vuota, un nulla meraviglioso, dicevo che il mio amico doveva per forza aver espresso quel pensiero scherzando. Non so, non ricordo cosa avesse detto, ma mi interessava affermare le sue ragioni intuendo che potesse essere così. La mia memoria inghiotte immagini, il respiro fluttua, si fa misura del vuoto. So che in fondo sarà orgoglioso del mio gesto. Rivedo le prove, i gesti meccanici, lo spettro del vero che si agita per mesi senza tregua. Gettavo la testa all’indietro, come per sperimentare l’incombere del cielo. In quei giorni di attesa, andavo a dormire presto, seguendo una scala tortuosa per raggiungere il soppalco. Liberavo il respiro, mi addormentavo avvolta in un bozzolo di coperte.
In un indomani sbiadito nel ricordo, mi sembrava di poter scegliere. Invece, al mattino, scoprivo che ero già stata assegnata al corso base: di colpo ero circondata da allieve al loro debutto, emozionate nel primo tulle. Angelica era in visibilio, aveva una parte importante, io restavo nell’ombra, indecisa se guardare con rassegnazione la mia esclusione, accettando che non sarei mai stata una ballerina professionista.
Tracciavo un cerchio immaginario con la punta del piede sinistro, a ribadire tutti i gesti eleganti che potevo offrire al mondo. Le ragazze scelte per i balletti più importanti gioivano, per le altre partecipare alle coreografie minori suonava come un contentino.
Uscivo dal teatro oscurato dalla luce e dalla polvere, il palco è un’immagine piccola e secca, la mia ombra implode nel silenzio. Fuori, Trieste era una città diversa da come la ricordavo. Elena sceglieva la frutta fra le cassette del mercato, dicendomi che portava dei pesi sulle spalle, pesi che le impedivano di camminare e muoversi con scioltezza. Erano urla, divieti – mai a letto dopo mezzanotte, non si pranza con la televisione accesa, una signorina non dice le parolacce – infine cristallizzati in giudizi. Pesi che dentro di me sarebbero stati accolti come la furia benefica della pioggia, in lei erano il biglietto di entrata per una galleria di fossili viventi.
I suoi passettini, il rimanere ferma, erano una rivolta lucida che esprimeva l’affezione per le stesse dinamiche e la volontà di essere morsa, e consumata, e di affidarsi alle carezze tremende dei lacci familiari. “Se vuoi, potrai provare anche tu. Si tratta però di credere o meno a questa disciplina…” Un nome dal gusto orientale. Mi disse che avremmo potuto parlarne in un altro momento, forse capì che la mia delusione pulsava ancora sotto la pelle. I miei occhi turchesi potevano diventare feroci e torbidi. La mia faccia era attraversata da ombre compatte. “Ho solo bisogno di allontanarmi da ciò che conosco già. Perdonami.” “Non credi possa aiutarti un professionista esterno?” “No, è meglio che sposti lo sguardo lontano dai problemi. Finiamo qui questo discorso”.
Ero corsa a casa, lasciando che i miei occhi spruzzassero lacrime piccolissime. Avevo dormito più di ventiquattro ore, illudendomi così di cancellare il tempo e l’urto con la realtà. Volevo solo abbandonare un mondo nel quale ogni evento era strettamente legato a una causa e ciò era dunque la manifestazione tangibile di un principio di ordine. Volevo solo annullare la razionalità, trascinarla dentro l’imprecisata vaghezza dei sogni, rassicurarmi che non fosse successo niente di grave.