Pericle coda storta e bastardo – I – Darwin è un cazzaro
Delle sette vite che aveva a disposizione, il gatto Pericle se ne giocò quattro nelle prime ore di vita. Fu in una soleggiata domenica di inizio ottobre che la madre, alla prima sfornata della vita sua, mise al mondo cinque minuscoli felini. Un raggio di sole penetrò tra le lamiere della cascina che la giovane gatta aveva adibito a sala parto e la colpì sulla fronte. Guardò verso la luce. Percepì il rumore di un elicottero in cielo e miagolò a quello spiraglio di luce tutto il suo dolore. Ripensò agli attimi di piacere con il maschio della casa accanto, che a dire il vero se l’era presa senza troppo badare al suo volere. L’istinto l’aveva portata in quella cascina, nella catasta della legna da ardere. Pericle fu l’ultimo a uscire. La madre aveva oramai esaurito tutte le forze e poi tutto sommato quattro gatti potevano anche bastare per la prima volta. Così Pericle rimase per alcuni minuti con la testa di qua dal mondo e il corpo ancora di là e ci mancò davvero poco che non morisse strozzato in quell’organo tanto desiderato dal maschio della casa accanto. Non è ben chiaro come ne sia uscito vivo, tuttavia ad un certo punto Pericle si trovò catapultato in una selva di gambe brulicanti. Erano i suoi fratelli. Più grossi, più determinati, più attrezzati. E la prima vita intanto se n’era andata.
Più per caso che per volontà Pericle si divincolò da tutti quegli arti che lo spingevano ai margini della vita. E tuttavia la prima prova a cui l’esistenza lo mise di fronte pareva per lui a dir poco insormontabile: trovare una mammella disponibile. Il che sarebbe anche stato possibile, se i suoi fratelli avessero avuto una benché minima idea del concetto di solidarietà. E invece tra quelle mammelle era un tripudio di evoluzionismo e cieca lotta per la sopravvivenza. Ergo: Pericle, piccolo e pure affaticato da un parto così travagliato, aveva già perso in partenza. Guardò d’istinto verso quel foro nelle lamiere che fu di sollievo al travaglio della madre. I suoi giovani occhi percepivano una luce e la sua testa ancora impregnata di placenta un piacevole calore. E questo sarebbe dovuto essere tutto ciò che Pericle avrebbe potuto conoscere della vita, perché nel breve volgere di pochi minuti si ritrovò schiacciato tra il sedere della madre e un pezzo di castagno che gli offrì il suo fresco odore di legna come regalo di addio.
Nel frattempo un uomo dalle braghe di fustagno strette in vita e larghe sulle gambe, i mocassini malandati, i capelli radi, la barba bianca e i baffi gialli di trinciato ruttò e pisciò giusto a pochi metri dall’entrata della cascina. Era instupidito dal vino dell’osteria e innervosito dalle carte che non avevano girato a dovere. Bestemmiò. Poi ruttò di nuovo. Quindi, sebbene rallentato dall’alcool, udì una serie di inconfondibili miagolii. Si tirò su la cerniera dei pantaloni e disse Ecco, la troia ha fatto. Quindi iniziò a sbraitare verso la casa adiacente alla cascina. Che era la sua casa così come sua era anche la cascina.
Vieni giù, vieni giù porca puttana. Ancora con sti gatti di merda! Te l’avevo detto di cacciarla via sta vacca! Adesso ci pensi tu a sti gattini del cazzo! Io non li accoppo di certo! Vieni giù, cazzo stupida di una donna! e infiorettò tutto con un concerto di colorite bestemmie, gesti plateali di braccia e corpo e saliva in ogni dove. Dalla casa uscì una donna oramai attempata, capelli bianchi e vestiti a buon mercato. Si strofinò le mani in un sordido grembiule da cucina e iniziò a sbraitare anch’essa con una voce acuta che faceva da contraltare al tono basso dell’uomo.
– Coglione! Ubriacone del cazzo! Uomo di merda! Che colpa ne ha la gatta? É quel bastardo del gatto dei vicini che gli è salito in groppa. Quello è buono da niente come te.
– Non ci deve stare qui questa gatta, non ce la voglio. Solo dei problemi dà, porca di una puttana.
– Sei tu che dai problemi ubriacone, stupido.
– Adesso ci pensi tu a far fuori quei lavori lì.
– Perché tu non c’hai le palle, ecco perché. Tu a bere e a giocare alle carte sei capace. Guarda che schifo di campi, una vergogna. Niente fai tu, solo bere e giocare a carte in osteria” e così dicendo la donna, oramai all’entrata della cascina, con un ampio gesto del braccio indicò i campi attorno alla cascina e alla casa, dove oramai l’erba la faceva da padrona sulle colture.
Buono da nulla, ribadì entrando nella cascina. E adesso vattene. Vai, vai via, torna a bere in osteria che qui non servi a niente.
Cercò il giaciglio dove la gatta aveva partorito e lo trovò subito. Era, come detto, una gatta inesperta, altrimenti si sarebbe nascosta in ben altro modo. La donna e la gatta incrociarono gli sguardi. La prima sbuffò, la seconda intuì. Guarda cosa mi tocca fare. Sant’Antonio perdonami, disse la donna e si fece il segno della croce. Poi continuò Abbi pazienza, gatta. La vita è così. E la gatta sgranò gli occhi, terrorizzata e oramai consapevole di quanto sarebbe di lì a breve accaduto.
Cinque minuti più tardi Pericle non aveva più alcun fratello. La donna aveva rapito la figliolanza in fretta e furia per evitare le ire della madre, che tuttavia era troppo spossata e incredula per reagire. Né la donna né la madre si erano accorte di Pericle, invisibile a tutti tra il sedere della gatta e il ceppo di castagno. Solamente quando trovò la forza di alzarsi la madre si accorse di Pericle. Non era in salute e non pareva manco avere una gran voglia di vivere. E tuttavia, contro ogni regola di selezione naturale, era rimasto l’unico ancora in vita. La madre lo prese con la bocca per la collottola e lo alzò. Fu allora che si accorse della coda storta, retaggio del difficile parto. Ma alla madre questo non interessava.
Una cosa aveva capito la madre di questo strano mondo: i figli si fanno e si svezzano di nascosto. Il perché non era chiaro, ma così stavano le cose. Uscì dalla cascina con Pericle e incrociò l’uomo. Questi urlò qualcosa alla moglie. La gatta, che aveva oramai perso ogni fiducia nei bipedi, mollò Pericle per lo spavento. L’uomo si chinò e afferrò Pericle, ma era così ubriaco che ebbe un giramento di testa e cadde in avanti mollando la presa. Alzò la testa e vide Pericle nuovamente tra le fauci della madre.
Bastardo! Gatto bastardo! urlò in lacrime e con la fronte insanguinata per l’urto sul pavimento. E così Pericle, che ancora non si chiamava Pericle, sentì per la prima volta l’epiteto “bastardo”.
Era venuto al mondo da qualche ora e già quattro vite erano volate via. Quattro come quelle dei suoi fratelli. Che avevano Darwin dalla loro, ma una sola vita da giocarsi e l’avevano persa di già. Perché la vita, come aveva detto la donna alla gatta, è così.
PUNTATA SUCCESSIVA II – La selva oscura