Cataldo, la chiave di tutto e il profumo dei tigli
– Se non vi dà noia, signore, può spiegarmi cosa ci viene a fare uno come vossia in questo pirtuso dell’universo?
Mentre Don Vincenzo parlava rivolto allo straniero, la sua figura in controluce agli occhi di Cataldo sembrava disegnare la sagoma di un uomo che faceva fatica ad assumere volume nello spazio.
Era come se quella voce provenisse da un impasto d’ombra e suono, mescolato con l’aria sospesa di una giornata al tramonto.
Don Vincenzo era seduto su una sedia barocca, a capo di una tavola imbandita per Cataldo e l’ospite illustre. Il vecchio amministratore aveva alle sue spalle un finestrone largo e alto, dal quale si scorgeva appena il fianco della Chiesa madre.
La luce calante del giorno tracciava contorni evanescenti su tutti gli oggetti presenti nella sala.
Anche alle parole si appiccicava la stessa magia, così sembrava che provenissero da una dimensione diversa della realtà.
Cataldo aveva appena avuto il tempo di salutare genitori e fratelli e, insieme al maestro tedesco, erano subito stati ricevuti a palazzo.
Adesso si trovava lì, dopo cena, seduto a tradurre dal dialetto tutto quello che lo straniero non riusciva a intendere dell’eloquio sornione di don Vincenzo, mentre la giovane servitrice Rosina disponeva due candelabri rococò sulla tavola.
La giovane era rimasta stupita dal vedere quanto diverso fosse Cataldo da quel ragazzino che la rincorreva in mezzo ai campi. Per Rosina il tempo si era fermato a dieci anni prima, mentre il suo vecchio amico di baci aveva uno sguardo diverso, parlava come i signori, traduceva la parlata siciliana in lingue sconosciute.
– La vostra ospitalità merita più di una risposta, don Vincenzo. Ve ne posso fornire tre, addirittura, se non abuso troppo del cortese ascolto che volete concedere al mio italiano scadente.
La prima ragione del mio viaggio è, senza alcun dubbio, l’amore per la scienza. La terra su cui poggiate i piedi ha per i miei studi un fascino che voi, forse, non potete immaginare.
La seconda ragione è l’ombra di Cagliostro, il ciarlatano su cui mezza Europa si è divertita a costruire leggende.
Il terzo motivo è Cataldo; il vostro giovanotto mi ha proposto un vero enigma da risolvere, molto più interessante di Cagliostro stesso.
Il principe Galletti mi aveva fatto intendere che sarebbe stato un ottimo compagno di viaggio; ma ho trovato in lui qualcosa di più, come una singolare affinità di spirito.
Rosina con movimenti delicati aveva appena finito di versare nei bicchieri di cristallo un vino ambrato brillante dal profumo intenso di Malvasia e Cataldo si era fermato, per qualche istante, ad osservare la struggente grazia di quei gesti, quasi indifferente al complimento appena ricevuto.
– Di scienza, avi a scusari vossia, ma unni sacciu nenti.
E lo sciagurato di Cagliostro cosa ci trasi cu sti quattru casi di viddani?
Enigmi, poi? Se vossignoria permette, a quali enigmi vi riferite?
Cataldo è un bravo picciotto, lo conosco da quannu nasciu e conosco bene la famiglia; gente onesta, piccarità, ma povera e senza lettere. Che Catallu sa spirugghiava bonu già quannu era picciriddu, chissu è veru. Ma addirittura affinità di spiritu cu vossia…
– Don Vincenzo, la interrompo un attimo, abbia pazienza.
Il maestro tedesco si era alzato in modo brusco, come attratto da una forza irresistibile.
Cataldo osservava divertito la reazione del vecchio e di Rosina. Da un po’ si era abituato alle apparenti stranezze del suo nuovo amico. E aveva anche capito che c’era una filosofia dietro quelle azioni improvvise; la tempesta e l’impeto di un cuore invasato dalla bellezza e attratto solo da quella.
Il filosofo tedesco si era diretto con decisione verso la finestra alle spalle di Don Vincenzo, che Rosina aveva aperto appena due minuti prima per far entrare il fresco di quella splendida sera di fine aprile.
– Il suo picciotto mi aveva raccontato di questo, ma non gli avevo creduto…
– Di che parlate?
– Di questo aroma che si è mescolato alla nostra Malvasia e ci ha circondati… Si tratta di quelle piante lì, in fondo alla scalinata, vero?
– Il profumo dei tigli in fiore, maestro.
– Avevi ragione, Cataldo. C’è qualcosa di diverso in quel profumo, nella sua intensità. Una forza ammaliante che non so spiegare.
Goethe, dall’alto del palazzo dei principi di Fiumesalato, stava ripensando ai suoi lunghi mesi di grand tour in Italia, a tutte le meraviglie viste.
Poche volte aveva avuto una folgorazione paragonabile a quella che gli veniva incontro adesso, trascinata dall’aroma dei tigli in fiore.
In tutte le antiche rovine, in tutte le opere d’arte, in tutti i paesaggi incontrati, in ogni splendore contemplato si condensavano colori, odori, storie memorabili.
Eppure quella sensazione era nuova, in un senso che sarebbe stato difficile da esprimere pure per lui. Non era il profumo in sé che lo aveva catturato, ma il modo della sua manifestazione. Era una voce calda che risaliva dalle profondità della terra.
Settimane prima aveva provato ad appuntare sul diario di viaggio un’intuizione che gli sembrava legata a quella così singolare di adesso.
“Senza la Sicilia, l’Italia non lascia nello spirito nessuna immagine. Qui è la chiave di tutto” aveva scritto.
Rifletteva con più intensità ancora una volta su quelle parole. Le aveva confidate anche a Cataldo solo poche ore prima, in viaggio sulla strada da Girgenti.
– Lieber freund… io credo di sapere dove si trova la chiave della chiave, se posso prendere in prestito le tue parole – aveva rilanciato Cataldo,
– vieni con me a Caliruni.
Per l’episodio precedente:
Cataldo Torregrossa, ritorno a Caliruni