Dormendo su una panchina al sole di febbraio (delenda Carthago)
È una di quelle giornate in cui il sole, da mesi assai pudico, si lascia apprezzare. Non è ancora un sole capace di stendere la pelle sulle gote, che detto tra noi è uno dei piaceri della vita, e tuttavia i raggi del sole riescono a dissipare un po’ di foschia nella scatola cranica. Ma siamo in pianura padana, e poi mi conosco. Tornerà, la foschia. Ma non importa, chi vuol esser lieto sia, e io che lieto non ci sono nato il sole d’inverno lo so apprezzare eccome. Mi siedo su una panchina, alzo la cuffia e presento le tempie al sole. Bene. Mi guardo intorno. Bambini che giocano nel piazzale antistante, adulti lontano. Sì, lo posso fare. Sfilo la mascherina da un orecchio, i raggi mi sfiorano le labbra. Respiro, reclino la testa indietro, socchiudo gli occhi e con quel che rimane di aperto tra palpebra e palpebra osservo i bambini. Avranno sei sette anni. Uno di loro ha un fare da leader. Che sia vero o presunto saranno gli anni, gli eventi, la fortuna e la biologia a deciderlo. Penso al piccolo Annibale Barca giocare con gli amichetti cartaginesi. Sono io il condottiero, dice. Quei fattori di cui ho detto sopra gli daranno in seguito ragione. Sorrido. Davvero un peccato che il sole non sia ancora in grado di tirare la pelle sulle gote. Ecco, magari chiudo gli occhi un attimo.
Nel cosiddetto dormiveglia ci sono cose che appartengono al mondo reale e altre al mondo onirico. Reale: posso percepire il mio respiro pesante. Onirico: vedo cose che so non appartenere al qui e ora. E tuttavia sono anch’esse influenzate dal reale, da quello che ho appena visto e pensato. Si tratta di ricordi, nella fattispecie. Mi si sovrappongono nella mente, fatico a distinguerli. E poi c’è quel ronzio che proviene dalla mia bocca e quel vociare di infanti che non riesco a capire se è roba della mia testa o del piazzale dinnanzi a me. Ci lavoro sopra. Come quando produci un bel sogno e poi ti rendi conto che lo stai perdendo e allora fai di tutto per tenerlo, cose del tipo stringere gli occhi più forte o affondare la fronte nel cuscino. Ma oramai è perso. Qui invece riesco nel mio intento. Dipano la matassa. Ci riesco perché tutto sommato sono sogni di poco conto. Ricordi, come detto. Hai voglia se fossero state cose desiderate da tempo, che occhi spalancati tenevo già!
il mio quarto d’ora di leadership è finito in una sventagliata di peti.
Secondo sogno. Ricordo, pardon. Sono a Cesena. Ho all’incirca otto anni. Sono con i miei genitori. Credo di intravedere mia nonna, pure, ma non sono sicuro. Stiamo andando a piedi verso lo stadio, che qui a Cesena ci siamo venuti a vedere la partita del Parma. C’è un parchetto adiacente il muro di una cittadella fortificata. Ci sono persone che giocano a calcio. Sono tre, uno è in porta, uno calcia una sorta di rigore e uno guarda. Chi calcia è una donna e mi dà la schiena. Sotto la cuffia intravvedo riccioli biondi. La porta è il muro della cittadella. Goal. Lei esulta, che non ci credeva nemmeno lei di potercela fare. Si volta, ride, grida e saltella. Mi guarda e parrebbe volermi rendere partecipe della sua gioia. Forse sorrido, forse. Comunque il Parma ha poi vinto uno a zero.
Mi sveglio a causa di un respiro troppo rumoroso. Ho un attimo di imbarazzo. Nessuno mi può aver sentito, tuttavia. Un bambino si sta avvicinando alla mia postazione. Segue la madre che ascolta un vocale dal telefono. Il piccolo cartaginese pare contrariato. Non per colpa della madre, bensì per come devono essersi svolte le cose poc’anzi nel piazzale. Guardo il piazzale: ancora Annibale Barca a farla da padrone. Mi chiedo se è un vero leader o sa solamente scoreggiare in modo originale. Qualunque sia la risposta, al momento può bastare. Non è così per quanto riguarda il piccolo plebeo cartaginese che ora passa dinnanzi alla mia panchina. Lo guardo e lui mi guarda. Io sorrido e lui, sorpreso, sorride. Si allontana guardandomi. Sorpreso, ancora. Chissà se tra tanti anni si ricorderà di me come io ricordo la ragazza che segnò un insperato gol sotto le mura di Cesena. Tra l’altro: che farà adesso, cosa gli avrà detto la vita? A volte ci penso.
I bambini di Cartagine giocavano e uno disse: Io sono Annibale e comando e comanderò su tutti. Uno degli altri bambini pensò: allora io faccio Scipione e ti frego, Annibale. Ma non ebbe il coraggio di dirlo. Non ancora.
Il sole si nasconde dietro un palazzo. Mi alzo e me ne vado.
Foto di Ryan Conrow, Dariusz Staniszewski, Allan Mas da Pexels