Cataldo Torregrossa, ritorno a Caliruni
Il sole meridiano abbracciava con un abbaglio di luce tutto l’orizzonte.
Gli occhi socchiusi di Cataldo Torregrossa erano abituati ad attraversare quella luce come se nulla fosse.
Scrutava in basso dal monte Babbaurra la linea lontana delle case di fronte a sé.
La collina di Caliruni era circondata da pochi alberi di ulivo, mandorli assetati, qualche vigna rinsecchita e alcuni poveri casolari di pietra bianca.
Lo straniero che lo accompagnava non era sceso da cavallo; cercava riparo sotto un carrubo cresciuto a pochi passi dal sentiero battuto, mentre Cataldo sembrava concentrare il suo sguardo su un particolare.
Conosceva i nomi e le storie di tutti gli abitanti della baronia.
Attorno al palazzo del Principe di Fiumesalato, costruito in cima all’altura solo un secolo prima e poco frequentato dai nobili eredi del primo marchese, si ammonticchiavano un centinaio di casupole in cui si svolgeva la vita di quelle anime artigiane e contadine, in compagnia di galline, pecore e qualche asino.
Cataldo, figlio secondogenito di Melino Torregrossa e Gera Vancheri, era nato lì un quarto di secolo avanti, nella notte tra il primo di febbraio e il giorno della Candelora.
Lo stesso giorno in cui Padre Angelo Giannone, celebrando la festa della Presentazione di Nostro Signore al tempio, dall’altare del convento dei frati cappuccini leggeva alla messa: la luce del mondo viene, ma il mondo non l’ha accolta.
Padre Angelo parlava della luce del Cristo, mentre accendeva le fiammelle dei lucignoli di quattro candele da consegnare ai quattro presenti alla liturgia delle sei del mattino: gli altri due frati, Melino Torregrossa e don Vincenzo Carrubba, l’amministratore del palazzo baronale.
Ma don Vincenzo pensava, nello stesso preciso istante, a François-Marie Arouet detto Voltaire, ai lumi della ragione e alle pagine finali di un suo racconto bizzarro, Micromega, dove il polemista francese sosteneva che la verità fosse ancora tutta da scrivere.
Il cielo sfolgorante dell’entroterra siciliano, di un azzurro lucente impastato alle spighe gialle del grano maturo
Considerazione, quest’ultima, da cui don Vincenzo si era sentito come folgorato sulla via di Damasco, pur reputando (per il resto) di non averci capito un granché.
Gera aveva partorito Cataldo, in effetti, un po’ come Maria nella capanna del presepio, scaldata solo dal fiato del mulo che riposava dentro l’umile abitazione dei Torregrossa. Alle due di una notte di freddo che capita una volta giusto ogni quarto di secolo, tra quelle colline siciliane.
Fuori una coperta sottile di neve era distesa sulle colline gelate e a Melino, che si dirigeva al convento dei frati per la messa, per un attimo era parso che da qualche parte nel cielo stellato dovesse spuntare all’improvviso anche la coda della cometa.
Gli occhi di Cataldo erano diventati verdi, come quelli della madre, a forza di guardare il cielo sospeso su quelle creste ondulate di terra e calcare, zolfo e salgemma. Il cielo sfolgorante dell’entroterra siciliano, di un azzurro lucente impastato alle spighe gialle del grano maturo.
Al buio, all’ombra, alla luce smorta di altri luoghi, di altri orizzonti, i suoi occhi erano sempre stati di un altro colore. Un po’ come il guscio delle mandorle amare e un po’ come le olive che raccoglieva da bambino; niente luce di cielo e niente dorature di grano.
Adesso Cataldo si ricordava di avere sentito, per l’ultima volta, la voce della madre chiamare il suo nome tra quelle case, proprio il giorno dell’ultimo raccolto di frumento, al quale aveva partecipato quasi dieci anni prima. Si erano salutati senza lacrime, il giorno dell’addio, con l’eco sottile del suo nome che dalle labbra di Gera rimbalzava tra i vicoli del borgo.
Aveva all’incirca quindici anni, Cataldo, il giorno in cui se n’era andato.
Il Principe Giuseppe aveva convinto Melino, con un solo sguardo e una mezza parola, che gli sarebbe servito un giovane come Cataldo in città. Per la seconda volta, in pochi anni, al Galletti era stato assegnato l’incarico di Pretore di Palermo e aveva bisogno di qualche ragazzo in più a servizio presso il palazzo di Piazza Marina; la più importante tra le tante dimore di cui la famiglia dei Principi di Fiumesalato disponeva in tutta la Sicilia. Melo aveva allora benedetto il figlio e la sua buona sorte di servire un così gran signore.
Gli anni erano passati. Cataldo sapeva bene di non essere più quel ragazzino.
Teneva le redini lente con la mano sinistra.
Tornando a Caliruni, dopo così tanto tempo, era sicuro che avrebbe riconosciuto da lontano, dalla parte del monte Taborre, la merlatura della torre civica.
Era stato così.
L’accento nordico dello straniero, adesso, aveva richiamato la sua attenzione.
Si trattava soltanto di risalire a cavallo, continuare il cammino, giù dal monte verso la collina; accompagnare la luce del sole che cominciava a calare lentamente, dopo aver raggiunto il punto più alto del cielo.
Don Vincenzo, già da qualche ora, li attendeva impaziente al palazzo del Principe.
Foto Palazzo Galletti da Internet
Foto copertina Maria Clara Valenti