La forza di gravità
Mentre sotto i suoi piedi le persone con la testa all’insù la guardavano salire, Alice si sentiva vuota, leggera e libera come non mai. Anche lei, ma con le braccia distese verso l’alto, donava il suo viso al sole per riceverne le calde carezze.
Sembrava un comune lunedì mattina: eccoli lì Mario e Genesio, seduti sulla solita panchina della piazza a guardare i piccioni gironzolargli intorno e parlarsi uno sopra l’altro, fregandosene del fatto che in quella situazione mancasse chi faceva la parte dell’ascoltatore (figura oramai estinta come il dodo). La giovane Alice era uscita presto per sbrigare delle faccende; amava farle a metà mattinata quando il sole aveva stemperato il freddo mattutino e l’aria era ancora secca e pulita, quando i suoni e i rumori le risultavano ovattati. Bicchieri vuoti e bocche piene di lamentele per questo o quel governo, per una squadra di calcio piuttosto che un’altra, erano invece le chiacchiere riservate agli uomini seduti fuori un bar. Donne che facevano jogging, si poteva capire non dalla velocità della camminata bensì dalle tute aderenti e dalle braccia piegate con le mani chiuse a pugno che mimavano i movimenti di una corsa, però a rallentatore. L’unica velocità riscontrabile era quella delle parole pronunciate.
Paolo non stava crescendo, quei stessi centimetri guadagnati in altezza venivano presi dalla distanza dal marciapiede.
All’angolo di una strada Marco e Lucia tentavano di sbrigliare i collari dei propri cani che volendo annusare le parti intime dell’altro avevano creato intrecci di vite e di tessuto e per sbrogliarli il ragazzo doveva premere il suo petto su quello di lei e passare, imbarazzato, sotto il braccio mentre la ragazza, rossa in faccia, tirava su i piedi incaprettati dai due lacci strusciando la coscia nel ventre di lui. Fuori dal tabaccaio, poco distante Gus e Paolo si erano incrociati per caso a causa della recente pandemia, che li aveva costretti a casa e limitato le uscite,; era parecchio tempo che non si incontravano, ma mentre eccitati si aggiornavano della vita dell’altro Gus vide il suo amico cominciare stranamente a crescere in altezza, si stropicciò gli occhi e provò a guardare altrove perché pensava fosse un giramento di testa, ma in un attimo quei pochi centimetri di differenza a suo svantaggio aumentarono. Questione di prospettiva: Paolo non stava crescendo, quei stessi centimetri guadagnati in altezza venivano presi dalla distanza dal marciapiede. Stava fluttuando, anzi…si stava proprio alzando in volo.
I bambini giocavano intorno alla fontana, una mamma li osservava attenta mentre le altre tre erano chine sui cellulari a vedere video di bambini altrui che correvano in un’altra piazza di un’altra città dove, anche lì, è facile che ci fosse stata un’altra mamma a vigilare e le altre a guardare i cellulari.
Paolo stupito aprì contemporaneamente braccia e bocca: “Ehi, sto volando! Ma che figata!”. La bocca ben presto però cambiò forma, sebbene rimanesse spalancata, nel momento in cui capì che non poteva gestire quella disgrazia travestita da super potere.
Si erano finalmente liberati dai guinzagli quando anche Lucia e Marco si staccarono da terra e per non lasciare i propri amici a quattro zampe sfruttarono tutta la lunghezza possibile del nastro, dovendo però mollare la presa per evitare di portarsi dietro, verso chissà dove, i due cagnolini.
Mario e Genesio presi dai loro discorsi a senso unico non badavano a nulla, nemmeno al fatto che i loro sederi non poggiavano più sulla fredda panchina.
Fu in un attimo che diverse grida riempirono la piazza a 360 gradi: richieste di aiuto, qualche risata, schiamazzi, gente che correva non si sa dove, bambini a testa in giù e guinzagli svenuti accanto a cani che abbaiavano ai loro padroni volanti. In un attimo il caos. Tutte le persone in strada stavano prendendo congedo dalla terra volando verso l’alto e salutandola nel peggior modo possibile: con imprecazioni e grida.
A chi prima a chi dopo toccò a tutti, animali esclusi, di staccarsi dal suolo e volare dritti verso l’alto, verso il cielo, dove gli uccelli indispettiti dall’invasione dell’uomo, di quell’unico spazio fino a quel momento a loro riservato, iniziarono a beccarli in testa, sul petto, sui piedi, si potevano vedere gli artigli portare come trofei capelli strappati dalle nuche. Il percorso della vergogna aveva i suoi attori e mai ruoli furono più azzeccati.
Qualcuno cominciò a raggiungere le nuvole e oltre. Da lì si potevano osservare le centinaia, forse migliaia, di uomini e donne che dal freddo e dalla pressione faticavano a respirare e ancor meno a gridare. Esseri umani all’elio che volavano via come se fossero palloncini, senza fermarsi, ancora più su finché le nuvole non furono il passato e il futuro era solo un buio sempre più nero e freddo.
Se nostra madre terra avesse avuto le mani se le sarebbe messe sul viso per non guardare gli effetti della sua scelta, si poté solo lasciar andare in un pianto a dirotto. La pioggia durò 7 anni: continua, incessante, fitta, una cascata con mai una goccia in meno per tutti i 2555 giorni della sua disperazione.
Gli animali e la vegetazione, rimasti gli unici cittadini della terra, si adeguarono alla nuova vita riscoprendo la propria naturale selvaticità e occupando spazi una volta impossibili da raggiungere. Con il passare degli anni rami e fiori coprirono gli obbrobri costruiti dagli umani, abbracciarono e nascosero case, palazzi, rivestirono di verde i tralicci, l’erba crebbe laddove era stata seppellita dal catrame, i mari si riempirono di pesci, le barriere coralline spuntarono come funghi e i funghi poterono vivere per intero il loro ciclo di vita. La catena alimentare funzionò anche senza il soggetto più alto della piramide nutrizionale: quel dittatore sanguinario che abusò della propria situazione privilegiata, ricevuto dalla natura, e del potere immeritato.
Madre terra per secoli aveva mandato numerosi segnali del suo malessere ai suoi figli, provò anche a far diffondere un virus mortale che portò gli uomini e le donne a chiudersi dentro casa, a rallentare la propria vita tornando finalmente a respirare lei stessa e gli animali, che avevano tutto il diritto di godere della stessa mamma in comune con gli uomini. Nostra madre pensava, nonostante non ne fosse convinta, che sarebbe bastato ma si era sbagliata. I suoi figli tornarono irrispettosamente a saccheggiarla, a non averne rispetto e a uccidersi tra loro. E allora lei stanca allentò il suo abbraccio, quello che gli uomini chiamavano forza di gravità ed era spiegata con numerose teorie non era altro che il modo della terra per tenere i suoi figli vicini a lei, costantemente in contatto sin dalla prima forma di vita. Noi abbracciamo i più deboli per proteggerli, lei ci abbracciava con la gravità.
Le lacrime sì, erano ancora benvenute nell’abbraccio
Ma la natura si era stancata. Animali, piante, uomini erano tutti suoi figli ma questi ultimi furono da sempre il suo peggior prodotto. Non erano tutti cattivi, ma il pizzico di male di cui avrebbero dovuto essere portatori sani, quel poco che avrebbe dovuto servire per la loro sopravvivenza, troppo spesso prendeva il sopravvento al resto buono, quindi vennero sacrificati tutti, quella volta non c’era stata nessuna arca che li avrebbe potuti proteggere.
I sognatori speravano che in qualche modo sarebbero arrivati nello spazio e avrebbero viaggiato tra le stelle, all’infinito, un tour attraverso le infinte galassie, altri invece che fosse il proprio dio a chiamarli a sé. Ma nessuno meritava che la propria speranza si avverasse, difatti, tutti, arrivati a una certa altezza, persero i sensi, congelati, per poi morire da lì a breve. Le lacrime di Alice, corsero lungo il sorriso di chi aveva capito e caddero dal viso, a peso morto fino a diventare parte della pioggia. Le lacrime sì, erano ancora benvenute nell’abbraccio. I corpi no, loro proseguirono il viaggio: erano figli delle stelle ed era giusto terminare la propria vita tra loro e che esse, arrivati nelle loro prossimità, li bruciassero, spargendo nell’universo la stessa materia con cui erano stati creati.
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Balena