Tre pezzi di baccalà (e un ché di legna bruciata)
Ciao, mi chiamo Matteo e ho avuto una settimana di merda. Ora, non vi sto a tediare, a voi non interessa sapere cosa mi sia successo di così grave e a me non va nemmeno tanto di dirvelo. É un merdosissimo sabato sera e dalla prospettiva della porta d’entrata mi vedreste di spalle, chino su un piatto di… Ah, ok. Avvicinatevi, effettivamente sto coprendo il piatto con la schiena. Venite avanti, io farò finta di non vedervi. Esatto, un piatto di baccalà pagato forse un po’ troppo, poi un po’ di patate che ce le ho trovate assieme al baccalà e infine una bottiglia di Custoza, questa si comprata bene. Tre pezzi di baccalà, quindi. Li mangio a piccoli bocconi, che voglio gustarmi quel poco di bello che passa a questo convento. Ora, se mi vedete arretrare verso lo schienale della sedia, non è che sono satollo, è solamente che un ricordo mi sovviene da lontano. Non lontanissimo, a dire il vero, ma ho bisogno di fare mente locale. Quindi: c’entra il baccalà. Un attimo e ci arrivo. Un bicchiere di Custoza per dare il giusto nome alle cose.
Come poi funzioni la mia mente non l’ho mai capito. Mi verrebbe da dire che fa sempre di testa sua, ma è una frase senza senso, di quelle che i bambini scrivono e le maestre cancellano e i bambini allora non capiscono, che pareva tanto bella appena vergata. Adesso, come potete vedere, sto a guardare sotto il tavolino. Sta pensando al ricordo legato al baccalà, direte voi. Eh no, rispondo io. Altrimenti poco sopra non avrei detto quella frase da penna rossa, vi pare? La mia mente ha preso una via traversa, il baccalà deve attendere. Intravedo le calze nere muoversi nella penombra. Annuso. E non è cibo. É legna, legna arsa. Non è qui, ovviamente. Qui c’è solamente la ghisa a riscaldare l’ambiente. Il fatto è che stamane sono passato per un paesino. Che definirlo paesino, poi, fa un po’ strano: una manciata di case coloniche al limitare della città. Però c’era la nebbia e c’era quell’odore, quell’odore che avevo ormai dimenticato perché in città è tutta acqua calda in anime di ghisa e gli odori sono artificiali, roba che ti ci abitui subito e poi non senti più niente. Non ricordo un inverno senza odore di legna che arde. La legna che arde è un ricordo che non ha tempo. É infanzia, ma infanzia di specie. Il primate che si difende da freddo e belve feroci. Io piccolo e inesperto che mi rifugio nel crepitio della legna nella stufa marca “Sovrana” e per la prima di innumerevoli volte penso che quello che c’è fuori da quella finestra, tolto il calcio e un paio di amici, non è mica sta gran cosa. Odore transizionale, ancestrale peluche di fuliggine e fumo.
E ora, mentre con la mancina impugno nuovamente la forchetta, penso che quest’anno siamo alle soglie di febbraio e l’odore di legna che arde l’ho sentito giusto stamattina per la prima volta. Casa, tangenziale, lavoro. Percorsi a circuito chiuso per lampadine dalla luce sempre più fioca. Sono uno scimmione senza focolaio. Avete letto il labiale? Ripeto: uno scimmione senza focolaio. Stacco un boccone di baccalà con la forchetta e lo porto alla bocca. Guardo avanti. Come potete vedere c’è una stella di Natale, le foglie un po’ rosse e un po’ annerite, un po’ sulla pianta e un po’ sul tavolino.
Il baccalà, giusto. Mio nonno non era portoghese e credo non abbia mai sentito parlare di Lisbona e manco di Oporto. La sua geografia era limitata ai paesi di emigrazione del parentado e a luoghi visitati durante la guerra. Abitava in un paesino sull’appennino, aveva lavorato i campi fino al logoramento un po’ per bisogno e un po’ per abitudine. Uomo di progetti a breve termine, pratico, da romanzo verghiano. Il suo piatto preferito era, manco a dirlo, il baccalà. Era un piacere che si concedeva talvolta, una mano vellutata in una vita di calli. Un piacere che si era ricavato negli anni, tra semine, sfalci e messe domenicali. Ricordo di non aver capito nulla. Perché capire sul momento non è cosa da bambini nella norma quale io ero. A me il baccalà faceva pure schifo e non capivo quegli occhi vividi e guizzanti nel vedere quel piatto schifoso.
In tanta stoica fatica mio nonno aveva capito che un baccalà poteva fare la differenza. Non era l’unico piacere della vita, ma di sicuro il più voluttuoso. Le flanelle fradice di sudore, l’anca consunta, la pelle dura e il baccalà il venerdì sera (la scansione temporale del baccalà è mia invenzione).
Il mio baccalà è finito. Le patate pure. Se vi spostate, avrei bisogno di mettere tutto in lavastoviglie. Bene, ora potete andare. Ma tornate più spesso. No, non è una frase di cortesia. É che il baccalà costa un po’ caro e io non ho la stufa e nemmeno il camino. Mio nonno si. E credo che nonostante tutto sia stato più felice di me.
Au revoir.