Bar sopra la stazione e sotto il mare
RACCONTI 4X1
1) IL TRENO PER VENEZIA
Mi sveglio anche stamattina in ritardo. Ancora non mi entra in testa che sono poche 5 ore di sonno a notte e stamattina non riesco a tenere gli occhi aperti. In realtà è la mia situazione tutte le mattine, da che ho memoria. A prescindere da quante ore dormo.
Sul treno metto le cuffiette e mi sparo un audiolibro. Dammi retta non c’è ninna nanna migliore di un audiolibro, soprattutto se la storia racconta di una cena tra fisici quantistici.
Avere Termini come fermata di destinazione ha degli effetti indesiderati. Perché, manco stessi andando al patibolo, la voglia di andare a lavoro è scarsa e il sentire le destinazioni dei treni dai megafoni non mi è affatto di aiuto. I fischi dei treni in partenza hanno su di me l’effetto “Belluca” di Pirandelliana memoria. Soprattutto perché tutte le mattine viene annunciato quello per Venezia Santa Lúscia (quando l’annuncio è in inglese), e, chi mi conosce lo sa, Venezia è la città dove mi trasferirei anche domani per andarci a vivere.
Tutte le mattine, tra me e me, penso che quel treno in realtà per gli altri non esiste, ma sono solo a io sentire quell’annuncio. E allora immagino un treno con un unico vagone passeggeri, completamente vuoto e con solo un sedile, parcheggiato in un binario lontano e secondario. Non so perché, ma per me il macchinista è un bambino con i pantaloncini corti fin sopra le ginocchia che presentano graffi e crosticine varie. I pantaloncini sono tenuti da delle bretelle e sotto indossa una camicia bianca. In testa un cappello da capostazione troppo grande per lui. Tiene un pallone sotto un braccio e un flauto nell’altra mano che userà per avvisare che il treno è in partenza. Ma io non vado e il treno non parte, mai. E il bambino ogni mattina rimane lì, fermo, senza suonare il suo strumento. Aspettando, con le sue ginocchia sbucciate.
A Venezia non vado nemmeno stamattina, però decido di fare il turista a Termini, oggi mi autorizzo a far tardi.
2) LA VETRATA IN BIANCO E NERO
Il leggero sporco sul vetro rende l’immagine dei treni e delle persone lì sotto malinconici e quasi privi di colore, come una foto antica in bianco e nero
E allora invece di andare verso la metropolitana vado nel nuovo piano superiore della stazione a prendere un caffè. Scelgo il bar con i tavolini lungo una vetrata che dà sui binari, proprio in testa alla gente. Sedute in tre diversi tavolini ci sono solo tre donne, di diverse età. Gli altri sono vuoti. La barista, alla richiesta di un cornetto me ne infila due piccoli nel sacchetto di carta. Ci può stare, visto che quelli grandi li hai terminati, ma almeno chiedimi se per me va bene. Ho sonno e il mio io polemico sta ancora ronfando, quindi li prendo e mi siedo senza dire nulla.
Il sole alto si schianta contro le vetrate diffondendo una forte luce e un calore estremamente piacevole. Lo sporco sul vetro rende l’immagine dei treni e delle persone lì sotto malinconici e quasi privi di colore, come una foto antica in bianco e nero. Seguo con gli occhi le persone. Chi va di corsa, chi si ferma parlando al cellulare o per fumare una sigaretta. Chi chiacchiera con i compagni di viaggio. Chi scende dal vagone perché è arrivato e chi sale perché deve partire. Immagino dove andranno i primi mentre fantastico su dove andranno i secondi.
3) I SENZATETTO
Finisco di mangiare uno dei due cornetti e vado via. Esco sul piazzale della stazione, dove si trova Borri Books e mi fermo all’altezza dei taxi. Accanto a me si srotola un tappeto di senzatetto, sembrano essersi appena svegliati. Uno è già attivo, ha la bicicletta con dietro il box porta cibo di una nota società che fa consegne a domicilio.
C’è anche un ragazzo molto magro, faccia spigolosa e con una quarta di tette. Ha gli occhi stravolti dal sonno, si alza in piedi si stropiccia le palpebre e si stira. Si sistema prima il pacco nei pantaloni e poi il reggiseno sotto la maglia mentre chiacchiera con il ragazzo in bicicletta.
Si avvicinano i vigili, c’è una piccola discussione. Sento uno degli uomini in divisa dire Ao’ t’ho solo detto buongiorno e se per favore vi spostate. Ma anche la diatriba ha sonno e infatti si addormenta poco dopo. Con molta flemma quelli appena svegliati si alzano tutti e cominciano a prendere le loro cose per iniziare la giornata.
Prima di entrare in stazione spengo la sigaretta sul bordo di un cestino, ce ne sono tre di diverso colore, uno per ogni tipo di rifiuto. Davanti a me c’è uno dei barboni che sta buttando bottigliette e oggetti vari facendo molta attenzione a infilarli nella busta giusta. Manco dove abito fanno la differenziata così scrupolosamente. Io sto per buttare la sigaretta al primo che mi capita ma il tizio mi osserva. Secondo me vuole vedere se la metto nel secchio giusto. Guardo i tre cesti: carta, plastica e “boh”… la getto nel “boh”. Non m’ha rimproverato, immagino di aver indovinato.
4) IO E STEFANO BENNI NEL BAR SOTTO IL MARE
In stazione sento una voce lontana dire Diego… vieni… vieni da me… entra… non te ne andare senza passare prima da me… il lavoro può aspettare…. E’ quella stronza di Borri Books che mi chiama, manco fosse una sirena. Io, fuori, in mezzo al marasma di gente, guardo dentro il negozio e mi sembra un’altra dimensione, un altro tempo: una luce diversa, poche persone, per lo più ferme o con piccole movenze, immersi in un silenzio caldo come una copertina di flanella d’inverno.
Entro.
Benni segue l’uomo, io seguo Benni
Giro un po’ senza meta lanciando sguardi come coriandoli verso copertine e titoli. Poi me ne viene in mente uno, di titolo, consigliatomi da un amico poco tempo fa: “Il bar sotto il mare” di Stefano Benni. Prendilo, ti piacerà. Soprattutto per come scrive, mi aveva detto (oggi risponderei “no” alla prima parte della frase e “sì” alla seconda).
Chiedo alla commessa, lo prendo e vado in cassa. Mentre la donna batte lo scontrino vedo degli strani oggetti di legno impilati dentro dei pioli. Sembrano dei tirapugni, ma una libreria è l’ultimo posto dove immagino di poter trovare un tirapugni, fosse solo per il fatto che in genere non si vedono così tanti skinheads in libreria, e così la mia curiosità prende voce e chiede cosa sono. La tipa ne sfila uno dalla pila per infilarselo nel dito, apre il mio nuovo libro e poggia l’oggetto al centro, sulla piega delle due pagine.
Ecco, serve a questo, mi dice con lo sguardo imbarazzato per avere in vendita un articolo così stupido, serve per tenere il libro aperto. Ho fatto prima a fartelo vedere piuttosto che a spiegartelo.
Condivido il suo imbarazzo e glielo paleso. Ci salutiamo con dei sorrisi amareggiati.
Metropolitana. Comincio a leggere, è la prima volta che incontro Stefano Benni, lo trovo mentre segue un uomo con una gardenia all’occhiello della giacca. Benni segue l’uomo, io seguo Benni.
Il signore col fiore arriva in un molo, va verso l’acqua, nera, del mare, scende delle scalette e si immerge, così… senza nessun indugio. Io e Benni ci fermiamo, rimanendo un attimo interdetti, poi lui, davanti a me, riparte e si immerge. Anche io faccio lo stesso, mi lego i capelli, tiro su le maniche della camicia ed entro in acqua.
L’uomo ci guida, consapevolmente o no, verso un bar. Un bar sotto il mare. Entriamo tutti e tre a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Ci sediamo in tre tavolini diversi.
C’è parecchia gente, la cameriera mi chiede cosa prendo. Un caffè, le rispondo, e un portacenere. Grazie.
Mi guardo intorno. Iniziano le storie. Il primo che la racconta è un tizio con il cappello.
Così io, Benni, l’uomo misterioso con la gardenia e tutti gli altri, posiamo le nostre bevande sul tavolo e cominciamo ad ascoltare delle strane e bizzarre storie.
Il lavoro, se vuole, deve venirmi a prendere lui.
P. S.
Nelle prime pagine del libro c’è la foto dei personaggi nel bar che raccontano le storie. Io sono quello che ha fatto la foto.
Foto
“Il treno per Venezia” Foto di Victoria Borodinova da Pexels
“I senzatetto” Foto di Levent Simsek da Pexels
Copertina “Il bar sotto il mare” IBS