Niente fotografie
Il 2 luglio 2018 ho avuto un’illuminazione.
Sono così sicura della data precisa perché ho appuntato su Facebook la riflessione nata da questa folgorazione.
Che poi questo appunto vi sembrerà un paradosso, alla luce di quello che dirò fra poco.
Ma torniamo alla mia illuminazione.
Il 2 luglio 2018 ho trovato, chissà come, un articolo molto interessante in cui Julia Soares, una dottoranda dell’Università della California a Santa Cruz, afferma che “[…] has found compelling evidence that the act of taking a photograph impairs people’s memories of the event.”
Attenzione, attenzione.
Noi tutti scattiamo fotografie perché pensiamo che ci possano aiutare a ricordare determinati momenti della nostra vita. Siamo (eravamo) tutti d’accordo, no?
Eh no, a quanto pare non è così.
Mettiamo un attimo da un lato la mente brillante di Julia Soares, esaminiamo la mia illuminazione.
Qualche giorno (settimana, mese) prima del 2 luglio 2018 avevo vissuto un episodio alquanto spiacevole.
Ero andata a un concerto (non ricordo quale), avevo passato tutta la serata a scattare fotografie col mio cellulare. Una volta tornata a casa mi era preso un momento di sconforto: avevo la sensazione di non aver vissuto il concerto. Nel senso che non mi ricordavo di aver visto con i miei occhi il/la cantante. Una sensazione stranissima. E immensamente triste. Mi ricordavo di aver fatto tante fotografie, quello sì. Le avevo riguardate, bruttine, sfocate, tutte uguali. Nessun ricordo associato. Neutre.
Orrore! Così mi era venuto un dubbio: forse il mio cervello non funzionava bene.
E invece no. Avevo fatto subito un piccolo test per mettere alla prova la mia mente.
“Petra, pensa a un bel ricordo di tanto tempo fa”
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La festa di Natale della mia scuola di flamenco. 2014. Volti, musica, danza, sevillanas, risate, smorfie, ricordo tutto. Ricordo le emozioni. Posso quasi riviverle. Che bello!
Mi ero subito messa a cercare qualche foto ricordo di quel momento nel vecchio backup. Niente.
Non c’era uno straccio di fotografia neanche a pagarlo. Che peccato, mi ero detta.
Ma poi avevo cominciato a riflettere. La riflessione era andata avanti e mi aveva portata, grazie al cielo, a quell’articolo che mi ha illuminata e mi ha fatto capire.
“People think that taking a photo will help them remember something better, but it’s actually quite the contrary” afferma Julia Soares.
Nell’articolo parla di attentional disengagement. Se non ho capito male, quando tiriamo fuori la fotocamera, il nostro cervello si rilassa e perde la concentrazione.
Immaginatevi il nostro cervello, in versione fumetto, che mette le mani dietro la nuca, si stiracchia sul divano, mette i piedi sul tavolino, sbadiglia, si stropiccia gli occhi e dice: “Vabbè, io mi riposo, tanto ci pensa la fotocamera a ricordare”.
Questo argomento mi interessa così tanto che tutt’oggi continuo a leggere articoli e libri sull’argomento. L’ultimo è il capolavoro di Lisa Iotti, 8 secondi: viaggio nell’era della distrazione.
Uno di quei libri che rischiano l’orecchietta a una pagina sì e l’altra pure.
Ma che faccio ora? Non scatto più fotografie?
Soares dice “I’m not saying people shouldn’t ever take photographs, but they might want to be mindful about deciding when they do it.”
Io a parte il when to do it, ho cominciato a cambiare anche il how.
Ispirata da uno dei miei videogiochi preferiti, Life is Strange, ho deciso di riesumare la mia primissima fotocamera, ricevuta in regalo quando avevo dieci anni, più o meno.
Una semplicissima Yashica Clearlook AF.
Avendo trentasei pose, ogni fotografia è pensata, costruita, contemplata. Un rituale calmo. Altro che smartphone e modalità raffica. Ho già sviluppato quattro meravigliosi rullini.
Ma questa è un’altra storia e merita un altro capitolo.