Un Covid, tanti Covid
E’ bene premetterlo ancora. Con evidente insensatezza ci permettiamo di parlare di parlare di Covid. Ma che noia… Non lo si può negare. Ogni giorno, insieme alla tragedia, alla insofferenza, alla paura, dobbiamo sopportare l’afflizione dei pareri, tecnici e fantasiosi, di esperti veri e di improvvisati pensatori clinci. Questa consapevolezza impedisce di infilarsi in questa marea di opinioni su ondate, terapie intensive e indici di contagiosità (terminologia ormai della quale siamo più padroni di quella calcistica). E allora quale mai può essere il tema Covid se ci allontaniamo dal mondo ospedaliero e professorale?
Cerchiamo di stare, con leggerezza, sulla cronaca per cercare di capire se il nostro atteggiamento, collettivo, abbia un senso compiuto e omogeneo. Nonostante l’orgia di informazioni da tutto il mondo, ogni nazione, Italia compresa, dibatte e decide come se il male che stiamo sopportando fosse unico e originale. Come se le scelte, i dubbi, gli errori, fossero pensati e prodotti dentro i confini nazionali, magari solo regionali.
tutti hanno mostrato incertezze ben peggiori di quelle vissute nello Stivale
E che dire delle politiche alternanti di allentamenti e restrizioni? Tentando di mediare tra benessere fisico e economico? Qualcuno ricorda che i cinesi hanno agito in modo rapido e efficace. Certo. I quartieri nelle condizioni più critiche venivano circondati dai militari. E chi non rispettava le regole era ricondotto a buone ragioni con una gentilezza nodosa. Pochi dibattiti e molta operatività restrittiva. Anche il virus ha temuto di buscarne. Ma noi abbiamo una democrazia, che si fonda sul consenso, che va conquistato col ragionamento e con la dimostrazione della bontà della scelta, nel bel mezzo di partiti, categorie, ordini professionali, sindacati e via così.
A dominare su tutto questo c’è un problema antico. Massimo D’Azeglio diceva: abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani. E ci stiamo ancora lavorando – per adesso abbiamo inventato il nazionalismo regionale. Una sindrome di gigantismo, corroborata anche dalla terminologia. I presidenti delle giunte regionali amano farsi definire Governatori (tutta colpa dei film americani), volendo segnare un potere in fondo più elevato. Non dimentichiamo che qualcuno ha anche minacciato di “chiudere i confini”. Magari con un muro di metallo modello Trump.
Si può andare avanti così. Ma non bisogna annoiare. L’unica verità è che nelle tragedie impreviste, nei grandi drammi, ci sono due grandi difficoltà: decidere e non commettere errori o incongruenze. L’unica vera coerenza efficace sarebbe stato chiudere tutto finché necessario. Ma siamo in democrazia. Bellissima nella pace, ma faticosa in mezzo ai guai. Se lo ricordassimo potremmo scoprire il piacere e l’utilità della tolleranza.