Limbo di Natale
L’altro giorno ero in fila fuori dall’ufficio postale. Era mattina e la nebbia non c’aveva sta gran voglia di lasciare spazio agli astri. Insomma era una di quelle giornate merdose che hanno reso celebre la pianura padana tra gli abitanti al di sotto della linea Gustav. Un freddo, un freddo che santiddio ve lo raccomando. Il freddo non è un’entità astratta da queste parti. Una cosa tangibile, piuttosto. Ti si avvinghiava alle cosce e accarezzava i testicoli. E non ci sa fare coi testicoli, non fatevi idee strane. Ti si appoggia sulla schiena e ti bacia il collo. Tra le labbra ha un cubetto di ghiaccio. Lo deposita lì, appena sotto l’occipite e il cubetto inizia a scendere giù fino alle chiappe. Che sono umide, infatti, poi ci metti la mano sopra e no, in verità è tutto asciutto. È Natale, quindi. Non ce ne eravamo accorti, nevvero Signora? Non fosse per le luci, le offerte dei supermercati e qualche coglione in giro col cappello di Babbo Natale, si direbbe quasi che siamo ancora a novembre. Che dice? A novembre già c’erano le luci, i panettoni a prezzi stracciati e pure i coglioni? Giusto. Gennaio, facciamo. Va bene gennaio. In che sorta di Limbo ci siamo cacciati, Signora. Le giornate passano, Natale si avvicina e noi siamo qui in fila fuori dall’ufficio postale. Un freddo, Signora. Nevvero? Guardi, ha un orecchio scoperto. Si copra, che se poi le viene il raffreddore al posto dei canditi ci trova un tampone. Ci sono tre gradi, ma sembra meno cinque. Pazienza. Che limbo, Signora, che limbo.
Quest’anno l’ho passato un po’ in casa e un po’ in fila. Anche al fiume, a dire il vero, che è un po’ casa ma per fortuna non è mica fila. Stare in fila non serve a nulla, è tempo perso. Poi magari fa pure freddo, tipo adesso, e ti scappa la pipì. Sbuffi una nuvola di vapore e vai avanti di dieci centimetri. File memorabili a cui ho preso parte: adesso faccio fatica a ricordare, mi viene in mente una fila di gente aberrante fuori da una discoteca in un sabato sera di una dozzina di anni fa. Si, ricordo una gran noia e bicchieri, tanti, e un divanetto e uno che mi chiede non ti diverti? No che non mi diverto. E poi in fila a qualche concerto, anche. File memorabili a cui ho invece assistito in televisione: interminabile fila di gente oramai ex sovietica nei supermercati vuoti di Mosca. Ho comprato due limoni, ricordo di aver sentito da una signora con un fazzoletto in testa. Che ci fa con due limoni, mi sono chiesto e ancora adesso mi chiedo. Poi: file di persone disperate in quella che si chiamava Jugoslavia, gente che fuggiva da quelli della razza di fianco che a loro volta fuggivano da quelli della razza di sotto. Basta, ho pensato anche troppo.
Di buono c’è che la gente la prende con filosofia. Sui social arrotano le punte dei forconi, ma poi fuori dall’ufficio postale sono tutti rannicchiati, intirizziti, spenti. All’inizio della pandemia, la scorsa primavera, la gente in fila urlava “mi stia lontano!” e tutti abbiamo pensato che entro l’estate le nostre città si sarebbero trasformate nel set di un film splatter. Niente di tutto ciò. Ci si abitua a tutto. Quando facevo le domande ai vecchi del mio paese così rispondevano: ci si abitua a tutto. Hai mai mangiato un gatto durante la guerra? Ci si abitua a tutto. Hai mai ammazzato un uomo in guerra? Ci si abitua a tutto. Fondamentalmente è vero, ma ci vuole un po’ di esperienza per capirlo. Poi sono arrivato al desk, finalmente. Un mezzo sorriso di qua e un altro mezzo di là dal bancone. Lo si immagina dagli occhi, almeno, che vedere la bocca non sia mai. Poi ci si dice arrivederci. Buon Natale non lo so, si dice ancora?
Dante descrisse il limbo nella sua Commedia poi da altri definita divina. Non è mica un brutto posto, tutto sommato. La compagnia è anche meglio che nell’Empireo, per dire. Credo che questo lo abbia in parte già detto un irlandese, ma io l’ho detto meglio. Un fiume divide la gente del limbo da quei disperati dell’inferno e i fiumi da queste parti sono più infallibili del Mediterraneo. Nel limbo ci sono i poeti latini, quelli che non hanno potuto abbracciare, sfortuna loro, la fede cristiana. Gente che a Natale non fa il presepe, ma che tutto sommato un alberello pagano lo addobba pure. Vitto e alloggio, conversazioni stoiche e qualche amore saffico. Però, e questo va detto, te ne stai lì. Non ci sono Galibier da scalare come nel purgatorio, non c’è speranza di qualcosa di meglio e manco, per i più temerari, di qualcosa di peggio. Stai lì ad ascoltare Ovidio che racconta della sua vita di grande amatore e ti accontenti di quello per l’eternità. Così, tra le righe, vien fuori che questo limbo in verità non è sta gran cosa. Le giornate si susseguono, non c’è mai niente di nuovo. È come stare in fila, il limbo. Tempo perso. E quello manco l’eternità te lo restituisce.
Se avessi quattro desideri da esprimere il quarto saprei come spenderlo. Il quarto, esatto, che sputtanare i primi tre per una cosa del genere mi pare un po’ troppo. Eccolo: mi piacerebbe girare per le vie della città in decenni differenti. Partendo dal 1990, che mi ricordo poco e niente e quello che mi ricordo è roba di pallone, e andando a ritroso. Vedere i cambiamenti, fare esclamazioni di stupore, talvolta fermarmi in un bar e vedere come butta. Salutare un tizio avanti con gli anni nel 1980 e pensare: buon per te amico, mi sa proprio che il Covid te lo scampi. Ritornando al 2020 dall’abitacolo ho visto le luci di Natale fendere timidamente la nebbia. Non è una cosa nuova da queste parti. C’è una cosa però che differenzia questo Natale dai 2019 natali precedenti: c’è gente strana in giro, gente che si copre la bocca con la mascherina. Nemmeno nel limbo di Dante, che pure stava vicino all’inferno e ci dev’essere stata una puzza che saliva da quei gironi che lasciamo perdere, mettevano la mascherina.
Le file, la mascherina. Ho parcheggiato davanti a scuola. I bambini saranno i primi ad abituarsi a portare la mascherina sempre e comunque. Ci si abitua a tutto, sempre e comunque. I vecchi hanno sempre ragione. Ci si abitua a tal punto da far passar per normali le cose anormali e viceversa. Così guardi la tv sovrappensiero e in una pubblicità vedi un bar tutto luci e babbi natali e due tizi che si parlano vicini vicini e la mascherina dov’è? Non c’è la mascherina! E allora hai un moto di ribellione e poi ritorni in te e ti rendi conto che nei 2019 precedenti natali le cose funzionavano così. Ne è bastato uno a girare la frittata. Ci si abitua a tutto.
Il problema è tornare indietro. Oppure andare avanti. Quando sei nel limbo indietro o avanti cambia poco. Come nebbia e freddo il limbo ti avvolge e finisce per annichilirti. Le pagine del calendario finiscono a terra assieme ai progetti, alle cose che potrebbero essere e non saranno mai. Intanto le parche tessono il filo e Ulisse è ostaggio della maga Circe. Non succede, ma se succede non è cosa buona. E così, mentre sgancio la mascherina da un orecchio per assaporare il sapore dolciastro della nebbia prima di entrare a scuola, mi vengono a mente le parole di quel tizio di Recanati a cui si stringeva il core, a pensar come tutto il mondo passa, e quasi orma non lascia. Una traccia, un senso all’esistenza. Le file, i lockdown, i rimandato a data da destinarsi. Le palestre abbuonano i mesi di chiusura, la signora in nero con la falce no. Tempus fugit e c’è ancora tutto da fare, altro che orme da lasciare ai posteri.
Ma presto sarà Natale. Che non porterà nulla e svanirà come nebbia a mezzogiorno. E poi ancora limbo. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente diceva sempre quel tizio con accento marchigiano. Come dargli torto.