Cesco e il caffè tutto sbagliato
Un’auto color bianconatale passa di fronte al bar, dove Cesco si è fermato un attimo a ordinare un caffè da portar via.
Con la coda dell’occhio Cesco la guarda sfilare morbidamente sopra il selciato liscio e riconosce il Professore alla guida.
Raccoglie dalla tasca interna della giacca le tre monete da 50 che gli servono per pagare e si accorge che tutto è sbagliato, finalmente.
I suoi vent’anni, il ciuffo dei capelli, gli occhiali da sole, la giacca, le monete, il profumo del caffè, l’auto color bianconatale e, infine, il Professore alla guida.
Un giorno di sette anni prima, la mamma di Cesco aveva salutato tutti con un elegante inchino e si era diretta al capolinea.
Tutto sbagliato, pensa.
Il padre, alto, forte e balbuziente, una bottiglia dopo l’altra, aveva continuato la sua vita trascinando se stesso e il figlio fuori dalle sabbie mobili, senza mai aver capito come.
Cesco prende dal bordo superiore il triste bicchiere di plastica bianca per non scottarsi le dita, saluta la barista con un cenno e guarda la lingua sottile di vapore avvolgersi di fronte ai suoi occhi un attimo prima di sparire per sempre.
Tutto sbagliato.
Il Professore all’esame di settembre glielo aveva detto: Cesco caro, tutto sbagliato.
Non c’è una sola risposta che sia quella giusta.
Siamo liberi o siamo solo un ingranaggio di meccanismi che ci determinano necessariamente?
Non c’è risposta.
Perché proprio lei?
Non c’è risposta.
Perché proprio a me?
Nessuna risposta.
Non torna niente e non torna niente perché tutto è sempre stato sbagliato, fin dall’inizio.
La vita intera è un errore dell’universo.
Le stesse domande sono solo vapore che si avvolge e svanisce, ingoiate dal gelo di questa mattina di dicembre.
Cesco attraversa il selciato della via un metro più a destra delle strisce pedonali. Si dirige verso un punto preciso a due passi da lì.
Si ferma al centro della piazza. Non c’è nessuno.
Fa un freddo della malora. Abbassa la mascherina, solleva il bicchiere alle labbra e assapora l’amara fragranza dell’errore più grande che abbia mai colto.
Cosa avrebbe detto di me, lei, oggi?
Cosa avrebbe detto dei miei quadri?
Cosa avrebbe detto dei miei occhi?
Nessuna risposta.
Come guarderebbe, lei, questo stesso posto? Questo caffè? Il mondo intero?
Cesco ferma i suoi pensieri.
Vibra l’universo, come un ammasso potente di energia in espansione da un punto imprecisato verso un altro punto imprecisato.
Si arrotola la materia su se stessa, travolge gli spazi infiniti, li investe della sua turbolenza, li zittisce con rumori di fondo, con suoni cosmici e radiazioni ondeggianti. Con silenzi imbarazzanti li rianima.
Gli spazi si popolano di universi su universi, mondi su mondi, piazze su piazze, cuori solitari su solitudini cordiali, granelli di polvere su domande senza risposta. Riecheggia. Siamo liberi o tutto è necessario?
Cesco respira l’aria tremenda di questo inverno detto male.
Come passerà questo inverno?
Fra sette, quattordici, ventuno anni quale granello di me sarà rimasto intatto?
Cosa è sperare? Cosa significa?
Significa giocare a fare finta?
Significa che siamo come volute di vapore che si aggrappano alla luce, al freddo di dicembre, per scegliere una casa dove stare?
E questa casa è tutto e tutto è l’infinito e l’infinito è sempre fuori asse, fuori fuoco, insomma diciamo pure è sempre almeno un po’ sbagliato.
Cesco si sposta di poco dal punto in cui si trova, tanto per muovere un passo di danza. Guarda in basso, approssimativamente verso la punta del suo piede sinistro. Mette a fuoco lo scarto. Raddrizza l’asse dell’universo.
Qualcuno lo chiama, alza lo sguardo e vede il Professore andargli incontro con un sorriso largo e rotondo, affabile e dalle mille risposte. Tutte sbagliate, naturalmente.
Ma questo Cesco l’ha capito bene, solo adesso, e sente che in fondo, tutto sommato, non c’è mai stato niente di più giusto.