Subotua’l
Quella mattina Gus aveva un appuntamento e per non rischiare di arrivare in ritardo, come spesso succedeva, uscì da casa molto presto. Era indeciso se andare in macchina o con l’autobus; non scelse il meno peggio, perché in realtà non c’era. Fu Federico, il suo amico, a scegliere la seconda soluzione.
Si recarono in fermata non senza problemi di viabilità, con strade alternative e imprecazioni varie per arrivarci.
Giunti sul posto passarono una decina di minuti in cui Gus, fermo e immobile in un angolo del marciapiede, cominciò a sentirsi leggermente agitato. Anticipava nella testa il momento della salita sul mezzo e la difficoltà che avrebbe potuto trovare, cercando una soluzione a ogni ostacolo possibile.
Il 761 arrivò in perfetto ritardo, Gus aspettò che salissero tutti gli altri e quando toccò a lui guardò con sfida quei due grandi bracci, come quelli di un muletto per sollevare le pedane in un magazzino, che lo attendevano. Per prima cosa mise un piede su una delle due staffe mentre con la mano cercò un appiglio dove reggersi per tirarsi su, in modo da riuscire a mettere in posizione pure l’altra gamba. Ma non essendoci appigli né sporgenze utili a portata di mano, Federico allora gli fece da base per consentirgli una spinta che finalmente l’avrebbe aiutato a salire sulle due pinze, ma una molla azionata dal peso scoccò a grande velocità come una freccia colpendo la chiappa destra del pover’uomo. Una bestemmia rubò la chiave alla creanza e aprì la porta che gli spalancò la via di uscita, a gran volume, dalla bocca. Massaggiata la parte dolorante e fermo in una posizione da contorsionista, era il momento di farla “capire” al macchinario che poteva portarlo all’interno dell’autobus. Il meccanismo però non partiva, perché la fotocellula non riconosceva la gomma sotto le scarpe, nonostante il poveretto cominciasse a strusciarcele sopra, provando nervosamente anche con dei colpetti.
Le persone all’interno da che lo guardavano con compassione cominciarono a guardarlo infastiditi. Qualcuno azzardò un credo sia rotto, non funziona bene, per invitarlo a desistere e a lasciarli finalmente partire.
Federico dietro di lui lo aiutò a scendere a terra e la gente tornò ad essere dispiaciuta.
Ma Gus era testardo; se si fosse perso d’animo ogni volta che c’era un ostacolo non sarebbe mai arrivato in nessuna destinazione, quindi voleva salire sul quel dannato mezzo. Chiese aiuto all’autista riferendo che il sistema aveva problemi; l’uomo al volante sbuffò e scivolando svogliato lungo il corridoio centrale andò verso di lui: le sue uniche conoscenze tecniche però gli suggerirono di colpire con dei pugni la parte che avrebbe dovuto roteare, naturalmente senza raggiungere successo alcuno.
– Mi dispiace, ma purtroppo non funziona… le conviene aspettare il prossimo, disse l’uomo.
Gus amareggiato alzò bandiera bianca, Federico dietro di lui lo aiutò a scendere a terra e la gente tornò ad essere dispiaciuta. L’autobus se ne andò, lasciando Gus e Federico soli in fermata nel loro angolo, in attesa, con una chiappa dolorante per il primo e una dose sufficiente di rabbia per entrambi.
Passarono altri 25 minuti prima che un altro mezzo arrivasse. I due amici si fecero forza in silenzio, traditi dal petto gonfio di una grossa ispirazione d’aria che si illudevano desse loro forza e coraggio.
La storia si ripeté: fecero salire prima gli altri poi la scena di Gus davanti a quei due bracci fu la stessa: mise un piede su uno, Federico lo aiutò con l’altro, il macchinario si azionò ma fino a un certo punto perché si inceppò a metà strada. Perlomeno la molla questa volta era stata evitata, andando a finire nel vuoto tra le due gambe. Da dentro l’autobus un uomo si avvicinò e con la mano riuscì a tirare a sé Gus facendolo finalmente salire.
Gus potè finalmente tirare un sospiro di sollievo: il grosso era fatto, solitamente la discesa era meno impervia della salita e pertanto lo preoccupava molto meno.
Si guardò intorno spavaldo. Lui era l’unico in piedi mentre gli altri erano tutti seduti, anche Federico. La maggior parte della gente non lo guardava direttamente ma tutti gli riservavano baluginanti occhiate con la speranza di non essere visti: chi durante una chiacchierata e chi sfruttando il riflesso sul finestrino. Una giovane ragazza gli sorrise: non era la prima volta, ogni tanto qualcuno lo faceva, in segno di un’empatia non richiesta. Lui contraccambiava quegli sguardi con il suo, vestito di noia e frustrazione.
Tutte quelle persone sulle sedie a rotelle che potevano muoversi agilmente all’interno dell’autobus, che potevano salire e scendere senza dover pregare un dio in carrozzina che filasse tutto liscio ogni volta che mettevano il becco fuori casa non le odiava, e nemmeno le invidiava; chi odiava era piuttosto la cultura generale coperta e resa vecchia da uno strato di polvere di umano ma micidiale menefreghismo oramai incrostato dal tempo che aveva portato a nascondere alla società quelli come lui. Gus desiderava solo una cazzo di vita normale, se ne sbatteva di quei cazzo di sorrisi e sguardi di complicità se poi quando andava a fare la spesa o altrove trovava il suo posto occupato dalla solita macchina di “Mr. 5 minuti”: così le chiamava quelle merde (ho perso cinque minuti per trovare un’altra parola idonea ma l’alternativa sarebbe stata “teste di cazzo”, e non volevo essere volgare, ndA).
– E ti pareva, Mr. 5 minuti ha di nuovo parcheggiato al mio posto, brontolava, arrabbiandosi sempre come se fosse la prima volta, li trovate vuoti sì i parcheggi, fate passare la voglia di uscire di casa!
Agli altri in fondo cosa importava: a loro bastava aprire lo sportello dell’auto e prendere una delle sedie che scorrevano lungo i binari e farsi portare in tutta comodità fin dove dovevano arrivare. Il desiderio più grande di Gus era di poter finalmente camminare, solo, su una dannata pavimentazione liscia, libera da tutti quei diabolici marchingegni sempre in movimento che scorrevano e roteavano sotto i suoi piedi, molle lubrificate e lisce a cui doveva a ogni passo prestare attenzione per evitare che un piede scivolasse, finendo in mezzo a quegli affari infernali dentati o anche solo evitare di inciampare in quei maledetti fini cavi d’acciaio che non vedeva mai, e ogni volta che cadeva metteva di riflesso la mano in qualche fessura che, come la tana di un ragno velenoso, invece di aiutarlo, nascondeva al suo interno un nemico micidiale che nella migliore delle ipotesi gli avrebbe stritolato le dita.
Gus oramai andava in giro con bernoccoli vari in testa, pantaloni strappati, scarpe bucate e sotto i vestiti ampi lividi viola che lo rendevano un Dalmata a colori, ma nonostante tutto non mollava, pretendeva i suoi diritti e non si tirava mai indietro agli ostacoli che lo aspettavano, con faccia innocente, fuori casa.
L’empatia e il rispetto dovrebbero essere presenti di default e a dosi massicce nel dna di qualsiasi essere umano; almeno Gus avrebbe potuto smettere di desiderare che tutti i carrozzina-dotati capissero. Capissero che il mondo non è una loro esclusiva ma che era un diritto goderne anche per chi, come lui, aveva tutte e due le gambe funzionanti.
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