Cosa ho imparato cucinando l’injera
“Ci troviamo insieme così mi insegni a cucinare l’injera etiope?”
Mi piace capovolgere attorno ai fornelli l’ottica assistente-assistito, operatore-beneficiario, e creare un clima che porti persone di varie culture e raccontare a cuore aperto le ricette della loro tradizione.
Mi piace che ad illustrarle passaggio dopo passaggio, come si fa con i bambini, siano proprio coloro che sono stati ormai abituati da un pigro approccio assistenzialista a pensare di dover sempre e solo imparare dagli autoctoni come si dicono e come si fanno le cose.
Mi piace far capire a queste persone che l’Italia non ha solo da insegnare, ma anche molto da imparare.
Mi piace ritrovarmi impacciata mentre A. mi accompagna nel testarmi in nuove gestualità, inizialmente goffe e poi piano piano più decise, per cercare di conferire a questa sorta di pancakes aciduli la giusta porosità.
L’incontro culinario che propongo non è scontato: non tutti i beneficiari di un progetto di accoglienza sono persone con cui, una volta conclusosi il percorso, nasce un’amicizia. A differenza di come potrebbe pensare chi non è abituato a lavorare nel sociale, è qualcosa di unico e raro.
Per questo motivo e per una buona dose di gola, l’esperimento culinario è un appuntamento attesissimo da me e da chi, con me, ha avuto modo di unirvisi.
La verità è che A. ha già predisposto tutto. Per fare l’injera servono almeno 24 ore di fermentazione, che possono estendersi fino a tre giorni. Mi sono sentita come quando i nonni propongono ai nipotini di fare i biscotti insieme ma poi lasciano loro l’unico compito di usare le formine prima di infornarli. Tempo mezz’ora ed ecco i nonni urlare con bonaria gioia “questi biscotti li hai fatti tu!”, tralasciando la fase meno creativa e avvincente di raccolta, peso, assemblaggio degli ingredienti.
Non resta dunque che prendere il mestolo e formare l’injera, facendo attenzione a calibrare il calore per mantenerle porose e della giusta altezza -qualche millimetro.
“Ce l’ho fatta!” penso alla prima injera riuscita. Vado con una seconda, la terza poi lascio lo spazio e la padella alle mie compagne di esperienza. Guardo con soddisfazione la pila di injera che cresce, insieme commentiamo l’esito di ogni cucchiaiata di impasto mentre si addensa. Mentre cuciniamo chiedo ad A. se ha mai usato la farina di teff per cucinare l’injera in Italia. Google dice che si deve usare quella. Mi dice di no, che qui costa troppo e preferisce farla con farina di grano tenero e integrale o, se proprio vuole investire qualcosa in più, con il mix pronto per pane nero. Quando racconto questo aneddoto ad alcuni amici, storcono il naso delusi. Quasi fosse venuta a mancare la poesia di un sapore diverso, di un grano ancora ignoto, di un altrove scomparso come un palloncino scoppiato con l’ago.
È su questa reazione che voglio soffermarmi, e su ciò che da essa emerge.
Lo spiega molto meglio di me Lucia Galasso, antropologa alimentare, quanto sia nociva la retorica della Tradizione. Ciò che però mi ha colpito è molto più naif, e posa sull’ostinata voglia di rendere accessibili sapori ormai lontani per non rischiare di dimenticarli, di trovare un compromesso che avvicini a questi ricordi senza aderirvi completamente più che sorbire il contraccolpo economico di un prezzo troppo alto pur di non adattarsi. Ho trovato nella semplicità di una ragazza etiope che mi trasmette una ricetta dell’injera già “mediata”, già adattata al mercato italiano, gli ingredienti base per costruire insieme. Costruire un futuro, nuove ricette, una tradizione con la “t” minuscola che non aspiri all’assoluto ma si basi su ciò che accade qui e ora, nello spazio di questa cucina dove con gli occhi fissi impariamo, per una volta, da coloro che fino a ieri hanno pensato di non aver nulla da insegnare.
Sarebbe interessante anche sapere cosa pensa A. dei prezzi esorbitanti della farina di teff nei negozi del bio e di come gli italiani hanno, a loro volta, fantasiosamente gestito questo ingrediente ignoto. Perché c’è reinvenzione da entrambi i lati, ma con intenti diversi: c’è chi lo fa per adattarsi, chi per nutrirsi di miraggi di paesaggi lontani.
Cosa ho imparato cucinando l’injera a casa di una ragazza etiope? Che non esiste la tradizione, che reinventarla è un modo semplice per reinventarsi, aprirsi a nuovi orizzonti, lasciare che il contesto che ci circonda ci modelli senza scalfire ciò che abbiamo dentro. Tutto questo più o meno, ma non esattamente.