La carie
La signora con un gran casco di capelli a tinta cinese mi guarda e poi guarda la finestra alla sua destra e poi ancora me. Io non lo so perché mi guarda, non so mica cosa vuole questa. Allora faccio come lei e guardo un po’ il suo casco biondo Manciuria e un po’ la finestra. Forse non vuole niente, forse ha un po’ di strizza e basta. I denti sono suoi, del resto e l’empatia non va mai oltre la soglia del dolore. Però, voglio dire, io non posso continuare a guardarla, signora, abbia pazienza. Allora fingo di pulire gli occhiali e quando nuovamente li inforco mi focalizzo sui certificati appesi alla parete. Master, diplomi, gare di dentisti a chi estrae più denti a un morto, concorsi di bellezza per ragazze con apparecchio. Shangai, Chicago, Cardiff. Forse anche Cartagine, Micene e Bisanzio. Cose del genere. Cerco la mia carie con la punta della lingua. A Micene non l’hanno mai vista una carie così. Chiudo gli occhi un attimo. Se ha bisogno, signora, chiami pure.
Sabato scorso me ne stavo davanti allo specchio a fare quelle cose che fanno tutti: controllare i dati forniti all’ufficiale dell’anagrafe, fare gesti inconsulti, provare mimiche facciali che per nessuna ragione al mondo si replicheranno in un qualsiasi consesso umano. Si, quelle cose che poi quando ci ripensi sull’autobus fai una smorfia di vergogna e nascondi il viso nella sciarpa. Hai qualcosa in un dente, dico. E quell’altro me, di là dallo specchio, lesto ripete quel che ho detto. Non parlare, gli dico io, altrimenti non riesco bene a vedere cos’hai in quel molare. E niente, quello ripete, ripete sempre e alla fine riesco a farlo tacere e aprire la bocca. Aaaaah fa lui e io guardo ed ecco una bella carie sul molare in basso. Ci vuole il dentista, gli dico. E lui ripete. Coglione.
La signora è dentro. Prima di entrare ha gesticolato un po’ e mi pare abbia indicato la finestra, ma le parole le si sono strozzate in gola assieme al coraggio. Io ho accennato un gesto con le braccia, ma ho attorcigliato un po’ tutto e non mi è riuscito nulla di credibile. Spero non pensi ch’io sia un cafone. Poi sento chiamare un cognome che assomiglia tanto al mio. In sala d’aspetto sono solo, quindi quel cognome con una una t di troppo deve essere il mio. Mi alzo, mi avvicino alla segreteria e dico: “Due esse, nessuna t”. Poi sorrido, che non mi va di fare il saputello in sto periodo. La segretaria controlla il foglio e poi mi dice “Due esse, è vero, mi scusi” Davvero ha controllato? Si, ha controllato. Mah.
Non l’ho chiamato subito, il dentista. Prima ho guardato su google. Carie, carie denti, costo cura carie, dolore carie. Cose del genere. Poi sono finito su facebook, in una pagina di gente esperta di ortodonzia. C’era un po’ chiunque a pigiare su quei tasti: dentisti in pensione, studenti, apprendisti, cavie, feticisti degli apparecchi. Mi piace leggere quello che scrivono le persone che conoscono un argomento. Anche se a volte non dimostrano la stessa passione per la lingua italiana, fa niente. Mi capita di perdermi a leggere persone che disquisiscono di argomenti tecnici del tipo marmitte catalitiche e sonde lambda su pagine specializzate. Fondamentalmente non me ne dovrebbe interessare nulla. Non so nemmeno perché sono lì. Leggo, non capisco, immagino. Immagino il sig. Marelli, aduso a smontare motorini fin dalla tenera età. Quello che portava i carburatori a scuola e aveva impronte di grasso sul canto V dell’inferno, l’unico che si studia negli istituti tecnici e professionali. Poi lo immagino un po’ più grande, che si sbornia con gli amici e spiega il perché sulla centralina è meglio non metterci le mani. Marmitte che sgasano il giorno del matrimonio. E così via. Ad ogni modo, per tornare alla mia carie, un commento di un ortodonzista, il più sintetico di tutti, mi ha aperto la mente: se le persone chiamassero il dentista invece che perdere tempo su internet, risparmierebbero tempo e soldi. Va bene.
Sono seduto sulla poltrona del dentista. Me la ricordavo più comoda. Cose a cui penso: Stasi, Ovra, Gestapo, Kgb. Saresti in grado di sopportare un interrogatorio di quelli che andavano di moda nel secolo breve? Adesso sento un attimo cosa dice il trapano e poi ti dico. Accanto a me c’è un monitor. Compare una radiografia. Sarà la mia, penso. L’ho appena fatta, del resto. Non mi pare di avere gli incisivi così lunghi, però. Sicuramente qualcuno me lo avrebbe fatto notare. Guardo meglio. Sotto un dente, a destra, c’è una piccola vite. Un brivido mi percorre il corpo. Porto una mano alla guancia. Un’altra vite, a sinistra. Penso a un cavatappi. C’hai un cavatappi piantato nella mandibola. Altro che Stasi, sta roba manco l’Inquisizione. No, no, io le mie cose le ho combinate, ma sotto tortura non ci sono mai finito. Questa radiografia non può essere mia. Suvvia, un po’ di serietà. Mi giro verso il dentista. Anche lui guarda la radiografia. È perplesso. “No, direi di no” sussurra. Poi si allontana in un’altra stanza. Lui non ha capito, ancora. Io si. La signora. Povera signora. Quale sistema totalitario può averle fatto questo?
Percorro il corridoio che mi riporta in sala d’aspetto. Penso cose del tipo: più gli arnesi sono piccoli e più fanno male, il sapore delle paste è rimasto quello di quando ero bambino, non voglio invecchiare e farmi piantare cavatappi in bocca. Arrivo in sala d’aspetto e trovo la segretaria intenta a chiudere la finestra. Mi guarda e mi dice: “Potevate chiudere. Io ho aperto per cambiare aria, poi non ci ho mica pensato più. La signora, quella signora che era con lei prima, chissà che freddo avrà preso seduta dov’era. E vabbé, pazienza” Io pronuncio un si, ma ho la bocca ancora anestetizzata ed esce un rantolo. Ma cosa vuole che sia un po’ di freddo per chi ha due cavatappi spezzati nella mandibola? penso. Poi prendo la porta e scendo. A piano terra c’è un bar. Chiuso. Che vita, signora, che vita.