Il fiume – X – Paradiso perduto
Ricordo un neon circolare sopra il tavolo. Dal neon una luce intensa. Le rughe di mia nonna, in chiaroscuro. Le sue magre mani, quelle nocchie vistose, la pelle lucida e solcata da grandi vene. La vera, quella di suo marito e mio nonno, che la sua l’aveva persa. La legna crepitava nella stufa. Era inverno, ma dentro casa faceva caldo. Una vecchia per nonna, per mamma, per amico. Ancora adesso mi si stringe il cuore per la nostalgia. Gli anni brutti sono arrivati dopo. Un giorno il Dottore mi ha chiesto un’immagine per descrivere la mia infanzia. Non so se intendesse un oggetto o qualcosa d’altro. Era una richiesta vaga. Io gli ho raccontato questo. Ha fatto cenno di sì con la testa e ha scritto qualcosa sul suo taccuino. Così, come faccio io sul mio taccuino giallo. Un paradiso perduto, ho aggiunto. Mi è rimasto il dubbio che il Dottore non abbia compreso quest’ultima frase. Mia madre e mio padre non li vedevo quasi mai ed ero contento così. A posteriori, lo sono ancora di più. Con mia nonna stavo bene. In quella casa stavo bene. Giornate belle, semplici. E poi il giorno in cui la mia vita è irrimediabilmente cambiata. Il giorno in cui le finestre si fecero blu. E poi le sirene. Vado alla bottega a comprare il pane, mi aveva detto. Avevo tredici anni. Di me non si ricorda nessuno qui. Tutti si ricordano di mia nonna, invece. Tutti tranne colui che più di tutti dovrebbe portarne il ricordo. Lui no. Ha rimosso o forse non ha mai saputo, ha detto il Dottore. Certo, ho sempre risposto io. Certo. Un cazzo, certo.
Per anni ho continuato a pensare a questo posto. Alla casa di mia nonna, a quello che era e a quello che poteva essere rimasto. Ed ecco cos’è rimasto: i muri scrostati, le grondaie arrugginite e gli infissi marci. Resti di nidi abbandonati, uno per ogni anno passato lontano da qui. Io ero lontano e i rondoni nidificavano, i tarli rodevano gli infissi, l’acqua e il vento si prendevano il muro. L’altro giorno sono passato dal cimitero a mettere un fiore alla lapide di mia nonna e ho pensato proprio a questo. Infinite vite scorrono parallele alle nostre. E non sono quelle cose fantasiose che chiamano universi paralleli. No, è questo mondo, il nostro, che va avanti mentre noi siamo impegnati a fare altre cose. Mentre si cucina o mentre si fa l’amore o si dorme, accadono cose. Mentre ero chiuso in clinica, ad esempio, potrebbe essere caduta la persiana della stanza di mia nonna. Così è anche per le persone. Al cimitero ho visto la tomba di Beppe. Me lo ricordo bene, Beppe. Era più grande di me di qualche anno. Ma mi voleva bene, era un positivo e mi sapeva trasmettere tanto coraggio. Un altro ricordo felice. Qua e là, tra le righe del mio ultimo taccuino giallo, ne ho parlato spesso di Beppe. Non sapevo nulla di quello che era successo. Ho visto la data. Ai tempi credo di essere stato in clinica. Faccio sempre confusione rispetto a quegli anni. Il Dottore dice che è normale. Ho guardato la foto. Gli occhi e il sorriso li ricordavo, il resto no. Credo che avrei dovuto pensare al tempo passato insieme, invece ho iniziato a ripercorrere gli anni dalla data della sua morte ad oggi. Del tipo, mentre io facevo questo tu eri già qui, Beppe. E così dicendo. I modi del cervello sono assai stupidi, a volte. Ho saputo che ha avuto una figlia di nome Katia. Ho capito chi è: quella giovane un po’ alternativa che viene sempre al fiume. Mi è parso di vederla anche dal Dottore, una volta. Non è il mio terapeuta, ovviamente, ma mi serviva una prescrizione per le mie medicine.
È gente fatta così. I vincenti sono fatti così. L’ho accompagnato alla stazione e ci siamo salutati. In bocca al lupo per la scuola, gli ho detto. Ok, mi fa lui. Nient’altro
Il neon è ancora funzionante. La luce trema, ma resiste. Ho detto a Michele che era proprio quello, quello di quando ero bambino e vivevo qui con la mia nonna. La cosa mi ha fatto davvero emozionare. Ah si? mi ha fatto lui. E poi si è dato una grattata ai lunghi capelli biondi. I bambini hanno un senso del tempo differente. Michele non ama stare qui. Non è casa sua, non glielo ha detto il Dottore di venire qui. Le sue radici non sono in questa terra, non ha nulla da cercare e nulla troverà. E poi non ha un passato, Michele. Ha un presente e un futuro. Se non hai un passato alle spalle il peso di certe scelte non lo puoi comprendere e quella di venire qui non è stata una scelta sua. Mia cugina ha molto insistito perché Michele passasse l’estate al paese con me. Mi avrebbe fatto compagnia, ha detto. E poi altrimenti avrebbe dovuto passare l’estate in città. Tuttavia credo lo abbia fatto per me, più che per suo figlio. Per farmi capire che crede in me, per responsabilizzarmi, insomma. Prima di tornare da sua madre, a inizio settembre, Michele mi ha detto di aver fatto pace con quei bambini con cui si è beccato tutta l’estate. A dire il vero, sono loro ad aver beccato lui. Michele è un freddo, le cose gli scorrono sopra. Pure quando si sono scazzottati, mica se l’è presa più di tanto. Voglio dire, lì per lì un po’ c’è pure rimasto male, ma dopo un paio d’ore era come se niente fosse. Quanto a quell’altro, Luca mi pare si chiami, un po’ lo capisco. Si vedeva che era innamorato di quella ragazzina. Chissà quanto ci ha lavorato. Quella invece non aveva occhi che per Michele. Intendiamoci: mi rivedo in quel ragazzo ben più che in Michele. Michele è tutto sua madre, una brava persona ma tutt’altra stirpe rispetto a me. È gente fatta così. I vincenti sono fatti così. L’ho accompagnato alla stazione e ci siamo salutati. In bocca al lupo per la scuola, gli ho detto. Ok, mi fa lui. Nient’altro. Finalmente, anzi. E Luca? I nostri risultati in quei primi anni di vita ci dicono molto su chi saremo. Luca avrà estati migliori. Ci saranno momenti in cui crederà di avercela fatta, di aver svoltato. E tuttavia questi anni torneranno a fargli visita. Lo riporteranno nel baratro. Così è la vita. Una selezione subito all’ingresso.
Non ho più molto tempo per scrivere. Sento le sirene in lontananza. Tra poco la finestra diventerà blu. Ritornerà blu, anzi. Come allora. Il neon sfarfalla. Mia nonna morì una sera di ottobre
Quelle sirene blu sono state la cesura della vita mia. Un prima e un dopo. L’ho detto, qui nessuno si ricorda di me. Me ne sono andato che avevo tredici anni. Magari qualcuno negli anni si sarà chiesto che fine avesse fatto il nipote di quella povera donna, quello che ha fatto un paio di anni di scuola qui in paese. Nessuno, quest’estate, ha associato il mio volto a quello del ragazzino. Si sono fatti tante domande su di me. Domande sbagliate, curiosità fine a sé stessa. Gente che vive nel presente, incurante di quello che è stato. Insignificante, nella loro memoria. Fondamentale, nella mia. Il mio paradiso perduto, prima della caduta nell’abisso. Ricordo il volto di mia madre dopo il funerale della nonna. Ricordo che arrivò in ritardo, pure. E poi mi disse che sarei tornato ad abitare con loro. E sbuffò, quando lo disse. In quel momento, seduto in auto accanto a mia madre, ho capito che quegli anni al paese con mia nonna non sarebbero stati che una parentesi felice di una lunga e triste esistenza. E poi iniziò il calvario. In breve mi assalì un senso di vergogna e inadeguatezza che mi atterriva. Smisi di andare a scuola. Non perché non volessi, è solamente che non me la sentivo. C’avevo vergogna. Vivevo con la vergogna addosso. M’investiva come la luce del neon nella cucina di mia nonna e mi lasciava inerme. Di questo ne ho parlato tante volte con il Dottore. Prova a vedere il tutto dalla prospettiva degli altri, mi ha sempre detto. Non aveva tutti i torti. Ricordo, ad esempio, un bambino di nome Mimmo. Era in classe con me qui al paese. Mal vestito, mal pettinato, decisamente povero. L’ho rivisto quest’estate al fiume. Nemmeno lui si è ricordato di me. Un bulletto, tutto esteriorità. Ma io lo ricordo quando era bambino. Era figlio di contadini, gente povera e mezzo analfabeta. Perché non vengono mai ai colloqui i tuoi genitori, Mimmo? Mio padre è vecchio e mia madre non capisce niente, maestra. E tutti a ridere. Lui li guardava, rabbioso, ferito nell’orgoglio. Non si teneva tutto dentro, lui. Ai tempi non godeva del riguardo delle bambine. Oggi sembrerebbe di si. Credo non abbia mai fatto pace con il bambino che era. E in definitiva, ne è rimasto schiavo, un eterno bambino.
Non ho più molto tempo per scrivere. Sento le sirene in lontananza. Tra poco la finestra diventerà blu. Ritornerà blu, anzi. Come allora. Il neon sfarfalla. Mia nonna morì una sera di ottobre. Mi dissero che era caduta nel fiume. In prossimità del ponte vide un bambino sporgersi dalla balaustra. Cercava qualcosa là sotto. Mia nonna si spaventò a vedere quel bambino rischiare la vita. Urlò, lo sgridò, infine lo prese di forza e lo tirò giù. Il bambino disse che aveva perso qualcosa. Un pallone, forse. Ma mia nonna gridava che era pericoloso e il bambino scappò di corsa. Mia nonna lo vide scappare. Poi guardò giù, per capire. Un uomo vide tutta la scena. Fu lui a chiamare i soccorsi.
Non ho nascosto la pistola. È qui sul tavolo. Sotto la luce tremolante del neon, davanti a questo foglio che ho ormai finito di vergare. Sono le ultime righe e poi, mi sono promesso, non scriverò mai più. Non ne sento il bisogno, è tutto finito. Sento il cane abbaiare. È il cane del fiume, ultimamente lo trovo sempre qui sotto. Sta abbaiando alle sirene, lo infastidiscono. La finestra si è fatta blu. Sono arrivati. Non ho niente da nascondere, ripeto. Il Dottore aveva ragione. Dovevo cancellare il passato, rimarginare la ferita. Ho fatto in modo che il mio taccuino giallo, il mio diario terapeutico, l’ultimo di una grande serie di taccuini gialli, lo avesse lui. Gli ho lasciato tutti gli indizi per capire. Non ha capito. Bastava unire tutti i puntini. Non l’ha fatto. L’ho ascoltato tutta l’estate vaticinare consigli a tutti. L’equilibrato del gruppo, quello che sa andare in profondità. Bravo. E cosa ne è stato di quella sera d’ottobre, Ste? Non credo di averlo ferito a morte. Non credo. Mi interessava aprire una ferita. Non sarà mai grande come la mia. Io sono la mia ferita. Caro Ste, io sono morto quel giorno in cui tu ti affacciasti dalla balaustra del ponte. Non l’ha fatto apposta. Era piccolo e nemmeno ricorderà o forse non se ne è manco accorto e nessuno, per provocargli traumi, glielo raccontò. Così ha detto il Dottore. Che abbia ragione?
Anche io ho la mia ragione, però. E la mia ragione è figlia di quella sera di ottobre. Anch’io sono precipitato giù, quella sera d’ottobre. Mia nonna dal ponte, nel greto del fiume. Io dal mio paradiso, a cui ho pensato nei tristi anni da lì a venire. Giù, nel mio fiume più nero. E quindi, Dottore, lei non comprenderà il mio gesto, ma io sapevo che s’aveva da fare. È tutto blu. E il cane latra.