La fica carnivora
Non avevo trovato nessuna da rimorchiare quindi mi era balenata per la mente un’ idea stupida. Ma d’altronde cosa puoi fare di buono quando sei ubriaco marcio?
Avevo imboccato una scorciatoia che dal locale tornava verso casa mia, non per tornare prima ma per trovare qualcuna che batteva il marciapiede da portarmi a letto. Era una zona alquanto malfamata ma non me ne importava. Non ragionavo col cervello ormai.
Spuntavano qua e là ragazze da casupole diroccate, attorno piccoli fuochi accesi per scaldarsi. Vedevo venirmi incontro un’ombra, una figura alta. Rallentai il passo e aspettai. Era un travestito, si avvicinò e mi disse “ti va il mio culo?”
“Sei brutto amico” risposi
In un millesimo di secondo mi ritrovai disteso a terra. Un rivolo di sangue mi correva giù dal naso e a pancia in su sentivo che dietro, sulla schiena, la giacca si era inzuppata d’acqua. Ero arrivato dritto in una pozzanghera. L’unica cosa bella era vedere il cielo limpido e una luna a falce stupenda. Provai a rialzarmi, con la manica mi asciugai quel liquido vitale e sentii nuovamente avvicinarsi qualcuno. Feci per proteggermi convinto che fosse tornato quel trans ma in realtà era una donna.
Mi porse la mano e mi disse “tranquillo voglio aiutarti”. Mi diede dei fazzoletti e mi invitò a seguirla a casa sua.
“Non abito lontano, ti asciughi e ti rimetti in sesto. Seguimi.”
In effetti arrivammo subito in quella casa messa alquanto male. Odore di muffa che copriva i muri, gli infissi vetusti. Ci sedemmo in cucina e dopo avermi messo del ghiaccio sul naso prese una bottiglia di vino. La dividemmo e in pochi minuti mi ritrovai a letto. Andammo avanti a scopare per un’ora o qualcosa in più. Poi la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai.
La finestra non aveva tapparelle e il sole che mi picchiava in faccia mi svegliò. Avevo un mal di testa insopportabile dovuto alla sbornia e a quel cazzotto ricevuto. La cose che mi sconvolse fu l’accorgermi che avevo mani e piedi legati alle sponde del letto. Provai a liberarmi ma ovviamente fu una cosa inutile.
Il trambusto aveva fatto arrivare in camera la donna con cui ero stato in intimità poche ore prima. Aveva una risata che non prometteva nulla di buono ma non capivo perché si stesse comportando in quel modo. Me lo spiegò lei subito dopo.
“Sei sorpreso?” disse
“Chi diamine sei?” le chiesi
“Come? Eppure mi hai nominato spesso nei tuoi articoli. Aspetta com’è che mi chiami? Ah, la fica carnivora!”
Non volevo crederci. Ce l’avevo davanti. Da mesi le davamo tutti la caccia. Polizia, carabinieri, giornalisti. Aveva ucciso diversi uomini ma non si capiva il movente né si trovavano tracce che la potessero identificare. I suoi delitti erano firmati con la macabra evirazione dei malcapitati. Avevo dovuto infastidirla parecchio per volermi vedere morto.
Maneggiava un tagliacarte e mi fissava
“tranquillo che non ti ucciderò subito. Voglio giocarci un pochino con te”
Se ne andò in cucina e mi lasciò legato lì.
Sentivo il telefono che vibrava dentro la tasca della mia giacca. La mia massima puntualità in tutto aveva dovuto preoccupare i miei amici e i miei colleghi.
Si divertiva a salirmi addosso e scoparmi, schiaffeggiarmi. Ogni tanto mi dava dell’acqua e del cibo. Poco a dire il vero. Mi permetteva di andare in bagno solo sotto minaccia di una pistola. Così trascorrevano le mie giornate.
Perdevo peso perché non era abbastanza quello che mangiavo. Dovevo trovare un modo per chiamare aiuto. Il cellulare vibrava ancora ma sapevo benissimo che più passava il tempo e più la batteria si scaricava. Lei tornava puntuale due, tre volte al giorno a giocherellare col mio uccello, a tagliuzzarmi. Ero al limite delle forze. Una mattina mi accorsi però che il mio dimagrire e il mio dimenarmi aveva allentato una delle manette. Sfilai la mano e nel più breve tempo possibile feci partire l’ultima chiamata effettuata ormai giorni addietro.
Era il mio capo, che rispose sbraitando.
Dissi solo che non avevo molto tempo per parlare, che stavo per essere ucciso. Ricordavo che quando ero finito in terra avevo visto il nome della via in cui mi trovavo. Glielo riferii, aggiungendo che ero in una casa non molto nuova nei paraggi di quel parco in cui pullulano prostitute.
Chiusi, cancellai la telefonata e rimisi tutto a posto appena in tempo. Quella maledetta aveva sentito del trambusto e si era insospettita. Arrivò ai piedi del letto ma vide che io ero immobile, legato e che tutto era come al solito.
“Domani sarà il giorno della tua festa” annunciò.
“Oggi mi divertirò ancora con te e poi cucinerò quel tuo uccellaccio, come ho cucinato quelli degli altri bastardi come te” aggiunse.
Per tutta la sera e parte della notte fece sesso con me, senza fermarsi mai. Poi crollò e dormimmo.
La mattina mi svegliò un profumo intenso. Erano cipolle e patate. Ero certo che fossero il contorno con cui mangiare “altro”.
Come sua abitudine affacciò all’entrata della porta e mi salutò annunciandomi che era quasi tutto pronto. Poi se ne andò sghignazzando.
Avevo preparato un piano estremo di autodifesa. Sul comodino accanto al letto vi era un posacenere di cristallo massiccio. Gliel’avrei spaccato in testa quando si sarebbe avvicinata per farmi del male. Speravo però che fossero riusciti a trovarmi in tempo le autorità.
Ormai la zona doveva essere battuta palmo a palmo ma da quell’apertura non riuscivo a scorgere movimento alcuno. Fu dopo circa quindici minuti che qualcosa si mosse. Due figure si avvicinarono e aprirono la finestra con estrema cautela, cercando di non farsi sentire. Fecero segno di rimanere immobile e in silenzio. Lo feci.
Dalla cucina quella megera urlò “è tutto pronto mon cherì!”
Arrivò velocemente con un coltello la cui lama faceva impressione. Sudavo freddo ma dovevo fingere di non potermi liberare e sperare che tutto fosse andato per il verso giusto.
“Hai la possibilità di esprimere il tuo ultimo desiderio” disse
“La pagherai puttana” risposi
Esplose in una grossa risata e stava per avventarsi su di me quando irruppero i poliziotti e la immobilizzarono. Tirai un grosso sospiro di sollievo. Buttarono giù la porta altri agenti e la casa in pochi minuti fu invasa da forze dell’ordine e da reporter. Uno di questi scattò una foto di me disteso nudo sul letto.
Arrivarono anche i soccorsi, mi diedero le prime cure, poi mi misero in una barella e mi portarono in ospedale. Stremato ormai dalla fame e dalla stanchezza mi addormentai.
Il mattino seguente appena aprii gli occhi mi trovai davanti tutta la redazione del mio giornale. Ridevano di buon gusto guardandomi.
Il capo disse: “che fai non leggi stamattina?”
Avevano messo sul letto la copia di un quotidiano su cui ero stato sbattuto in prima pagina. Era la foto che mi aveva scattato quel bastardo il giorno prima. Non era un bello spettacolo lo ammisi ma scoppiai a ridere anch’io.
Ero stato immortalato con gli occhi quasi fuori dalle orbite per la paura, nudo come mia madre mi aveva fatto. Ma ero felice, perché lì in mezzo avevo ancora attaccato il mio uccello.
E quella era la cosa che contava di più.