Il fiume – IX – Benson and Hedges
“Non è un po’ strano come posto?” Katia guardò il cruscotto dell’auto “Cioè, voglio dire, non siamo mica fidanzati” Spostò lo sguardo oltre il finestrino. Il vento si alzava a folate e piegava le canne di bambù. Una foglia gialla si stampò sul vetro. D’istinto, la testa ebbe uno scatto all’indietro. “Insomma” continuò “mi vuoi dire perché mi hai contattato o devo intendere che mi vuoi stuprare?”
“La seconda” rispose Ste, gli occhi fissi sul simbolo del clacson e le braccia conserte.
“Non sei il tipo. Alla tua morosa poi che gli dici? Ascolta, posso fumare?”
“No”
“Uff, che peso”
“Fumi dopo. Se aspetti non muori, sai?”
“Giusto, se poi la morosina sente l’odore?”
“Ma ti fai un po’ i cazzi tuoi?”
“Allora non mi hai fatto venire qui perché mi vuoi sbattere?”
“Sono vecchio per te”
“Vecchio? Dillo al tuo amico, quello che mi fa le foto al culo. Pure i messaggi mi manda” Ste si portò pollice e indice agli occhi e sorrise.
“Ascolta” continuò Katia “mi dici perché mi hai fatto venire qui nel parcheggio del fiume? È un po’ tardi per fare il bagno, che dici?” Katia fissò lo sguardo in un punto del parabrezza in cui era riflesso un oggetto a forma di parallelepipedo. Evidentemente era da qualche parte nel cruscotto, ma non riuscì a capire né dove né cosa fosse. “Quindi?” aggiunse senza distogliere lo sguardo dal parallelepipedo riflesso.
Ste si grattò la barba folta. La cute, là sotto, prudeva. Gli capitava ogni inizio autunno. Pensò che fosse ora di accorciarla. Quindi portò la mano sinistra al portaoggetti della portiera e estrasse il taccuino giallo. Lo impugnò con entrambe le mani e guardando davanti a sé disse “Ecco il motivo per cui ti ho contattata”
Katia osservò il taccuino. Il tempo di organizzare i ricordi e disse “Lo so di chi è”
“Lo sai?”
“Lo so”, Ste si voltò verso la ragazza. Percorse il disegno della matita. Un lungo, lungo percorso che terminava ben oltre gli occhi. Si aggrappò sulla frangia e poi ridiscese a precipizio lungo il naso. La bocca. Era curioso. Katia? Ma va là, non sa di niente. Sempre snobbata. Si, era curioso.
“So benissimo, è dello sconosciuto. Quello che veniva al fiume col ragazzino”
“Si, proprio suo”
“Che c’è scritto, che sono figa?” Katia portò una sigaretta alla bocca. Passò il filtro più volte sulle labbra. Poi si voltò verso Ste e vide che l’uomo stava fissando il filtro. O forse le labbra “Magari me le facesse lui le foto al culo. Ho provato in tutti i modi a farmi notare questa estate” disse. E dovevano essere le labbra, pensò, perché il viso di Ste ora lasciava intravvedere un certo disappunto. Alla fine sono tutti uguali questi maschi, pensò.
“Ma come cazzo parli?” chiese Ste.
“Che avrò mai detto?” rispose Katia. Ma Ste aveva ormai tolto lo sguardo. Oltre il finestrino. Osservò una foglia. Poi un’altra “Ma cosa sto pensando?” pronunciò senza voce.
“Quindi?” riprese la conversazione Katia “Ti sei offeso? Volevi essere il più figo del reame? Mi dici cosa c’è di interessante nel taccuino per favore? Comunque l’altro giorno l’ho visto quel tizio. Ma non pensare male eh!” Le frasi di Katia uscivano veloci, senza soluzione di continuità.
“Che dovrei pensare? Non sono problemi miei” rispose Ste voltandosi verso Katia. Anche lei lo guardò. Vide un uomo di qualche anno più grande di lei con la barba curata e i capelli a casaccio. Corrucciato, narciso. Forse suo padre era un tipo del genere. Fissò la sua bocca e sorrise. Ma poi ritrasse subito il sorriso. Perché quando sorrideva così, lo sapeva, si mostrava nuda. E preferiva mostrare le tette che le emozioni. Tutta la vita.
“L’ho visto dallo psicologo. Dal Doc dove vado io” disse Katia battendo il filtro della sigaretta sull’unghia del pollice.
“Vai dallo psicologo?” chiese Ste. Il labbro inferiore si fece caldo.
“Che c’è? Qualche problema? Ti fa strano?”
“Ma no” disse Ste. E poi pensò di aggiungere qualcosa del tipo che problemi hai? ti posso aiutare? perché non ne parli con me? ma tutto suonava ridicolo e poi quella ragazza era tutto fuorché banale. Una serpe. Finì per grattarsi la barba.
“Ho anch’io i miei problemi” aggiunse Katia dopo un lungo silenzio.
“E non gli hai detto niente allo sconosciuto?”
“Che gli dovevo dire?”
“Sembravi così interessata”
“Con i fatti è tutto più semplice. Non è che mi vengono sempre le parole” Katia osservò nuovamente il riflesso del parallelepipedo nel parabrezza.
“Non si direbbe” ribatté Ste. Katia lo guardò. Sorrise. Di nuovo. Troppo.
“Ma il biondino era poi suo figlio?”
“La questione è un’altra” rispose Ste.
“Quel ragazzino sembrava uno della pubblicità. Si, di quando ero piccola io. Mio padre mi comprava sempre Topolino e c’erano nelle ultime pagine questi bambini miei coetanei che erano così belli. A volte ci penso: che fine avranno fatto? Saranno dei modelli? O dei cazzoni qualunque? Morti di droga? Di figa? Tre figli? Oppure in cassa integrazione?”
“Ecco appunto. Tuo padre” la interruppe Ste. Osservò la sua reazione di sbieco, con il solo occhio destro. La poteva vedere di profilo. La bocca socchiusa. Il volto sbarrato.
“Perché mio padre?” chiese Katia. Entrambi si accorsero di quanto le lettere p erano uscite tremolanti dalla bocca.
“Perché nel taccuino si parla anche di lui”
“Di mio padre?”
“Di tuo padre, si. Ci sono alcuni passi in questo taccuino in cui si parla di lui. Per questo ho pensato che…”
Ste conosceva bene gli attacchi di panico. Ne aveva anch’esso sofferto e tante volte aveva visto e provveduto a persone che ne venivano colpite. Però questa volta sentì qualcosa di differente. Mentre invitava Katia a respirare regolare e le massaggiava il braccio per distendere i muscoli, sentì anch’esso uno stato ansioso pervadergli il corpo. Ma non era panico, non era quella forza terribile che costringe all’immobilità. Era, anzi, l’esatto opposto. Una forza che spingeva ad agire, muoversi. E ormai l’attacco di panico di Katia era cessato e tuttavia Ste continuava a massaggiare il braccio e la sua mano saliva verso la spalla, mentre i ricordi di Katia si confondevano tra la barba e il riflesso di quell’oggetto nel parabrezza. Poi si sentì un colpo contro la portiera dell’auto, dalla parte di Ste. Entrambi urlarono. Si voltarono di scatto e vedendo la sagoma dietro il finestrino urlarono ancora più forte.
Il cane del fiume.
“Ti accompagno a casa”
“Si, grazie” rispose Katia allacciandosi la cintura. Si osservò nello specchietto retrovisore. Un disastro. Sbuffò.
Ste sentì l’odore dei suoi capelli. Era buono. Ma non come prima.
“Ascolta, vuoi leggere quelle righe in cui si parla di tuo padre?”
“Non lo so, non so se me la sento. Ma come lo hai avuto?”
“Diciamo che l’ho trovato”
“Non lo so, comunque. Forse per adesso meglio di no”
“Se vuoi ti faccio delle fotocopie e…”
“Meglio di no, ti ho detto. Più avanti” quindi tolse la cintura e si sporse verso il cruscotto dell’auto fino a impugnare l’oggetto che tanto aveva attirato la sua attenzione. Una pacchetto di sigarette. Marca Benson & Hedges.
“Ma quindi fumi?” Chiese Katia osservando il pacchetto che teneva tra le mani.
“A volte”
“Che tipo che sei” Katia sorrise, ma Ste ormai non poteva più vederla.
“Ok, più avanti” disse infine l’uomo.
La macchina squarciò un vortice di polvere e foglie e scomparve oltre il canneto. Il cane del fiume rimase fermo finché poté udire il rumore dell’auto. Quindi si incamminò anch’esso senza una meta precisa.