Quando non c’è il lieto fine.
Questa non è una bella storia e non ha un lieto fine. Anzi, non ha proprio una fine. È una storia come ne accadono tante, purtroppo, storie che si fermano ai telegiornali, o alle pagine di cronaca dei quotidiani. Lasciano il tempo che trovano, impietosiscono e compatiscono, poi scompaiono dalla memoria.
Ma queste brutte storie restano addosso, a chi le può raccontare e a chi non lo può più fare; restano addosso a chi è rimasto, per sempre.
Più che allo sportello oggi sono temporaneamente in ambulatorio. Aspetto il prossimo paziente e quando lo vedo arrivare, in carrozzina, un flash si accende nella mia mente e riconosce il nome appena letto sull’elenco delle visite odierne. Un nome protagonista di una delle tremende cronache di qualche mese fa.
Il ragazzo, perché non è niente di più che un giovane mingherlino, è appunto in carrozzina, spinto dalla madre che lo accompagna alla visita. È piuttosto malandato, cupo, sofferente, il corpo e l’anima pieni di cicatrici. Quelle sulla pelle si vedono, quelle profonde si intuiscono.
La madre parla, parla, parla per lui, che non risponde alle domande del medico. Ci pensa lei. Fino a che è il bravo medico a chiederle di lasciar parlare lui. E a fatica le parole finalmente escono dal giovane.
Io la sua storia la so. Per come l’hanno riportata i giornali e perché quel giorno poco è mancato che le nostre strade si incrociassero.
Una mattina di fine estate, bella, limpida, di domenica prestissimo. Mi aspetta una piccola avventura con gli amici, al mare, sono sovrappensiero e faccio una strada diversa dalla solita. Fortuna, per certi versi. Perché nella solita strada, alla stessa ora in cui mi pregustavo la gita, accade un incidente terribile. Una utilitaria stracolma di ragazzi di ritorno da una notte di divertimento prende in pieno un albero e si trasforma in un ammasso di lamiera insanguinato. C’è un morto fra i ragazzi. Gli altri sono tutti feriti gravissimi, che sopravvivono a stento e con conseguenze drammatiche. Una ragazza perde una gamba. L’autista, quello che guidava, è il ragazzo che ho di fronte. Ancora prostrato, in evidente stato depressivo, dolorante nel fisico, morto nell’anima.
Provo una pena infinita per lui. Comprendo perché non ha voglia di parlare, nemmeno con il medico. Sono passati diversi mesi, è uscito dal coma in cui era precipitato, le ferite cominciano a lasciare la cicatrice, la riabilitazione non è ancora finita, ma nulla ha più importanza degli amici morti o mutilati. Mentre lui guidava.
E questa madre così logorroica, forte, che sembra tenere in mano la situazione e gestirla per lui e per tutti.
Mi chiedo se questa madre sia diventata così dopo l’incidente, per la gioia immane di avere ancora un figlio vivo da accudire come quando era neonato. Una donna dalle maniche tirate su che parla per lui, forse decide per lui, se potesse lo imboccherebbe anche.
Oppure se era così anche prima, se la sua presenza invadente abbia spinto i ragazzi allo sballo notturno, a cercare una forma di evasione dalla pesantezza famigliare. L’età media dei giovani nell’utilitaria era piuttosto bassa, c’erano dei minorenni. È l’età giusta in cui i genitori sono considerati dei rompiballe e le loro parole, di regola inascoltate, creano solo insofferenza. Questo già di norma. E se poi fossero realmente personaggi un tantino ingombranti da cui fuggire appena possibile per respirare un momento di folle libertà?
Nessuno potrà mai sapere come stanno le cose. Come stavano il giorno dell’incidente. E forse non ha importanza, di fronte alle conseguenze del sinistro: un ragazzo che non ha visto l’alba di quel giorno, una ragazza che dovrà imparare a fare a meno di una parte di sé, il trauma dei sopravvissuti. E il buio fondo negli occhi di questo ragazzo che non parla più, travolto dal dolore e dalle proprie responsabilità.
No, non è una storia bella, non c’è il lieto fine. Il peso che incurva le spalle del ragazzo, che ti viene voglia di levarglielo di dosso; lo sguardo fisso a terra, che vorresti alzargli il mento e spingerlo ad andare oltre; il suo silenzio, così pieno delle parole di una madre troppo forte. Basta tutto ciò per indovinare che per lui un fine pena non ci sarà mai.
Ritorno allo sportello, ad affrontare una umanità variopinta e inconsapevole e a volte chiassosa, nel cuore quel silenzio, quegli occhi bassi, e quel dolore che non ha fine.