La lirica delle foglie di coca
“Ricomporre amorevoli scheletri” è una dedica d’amore, a modo suo. Atto di cura per un paese come la Bolivia, elargito con spensieratezza anche se in fondo forse “la Bolivia è una malattia mentale” (p.248).
Giovanna Rivero, autrice boliviana di nascita ma che vive e lavora negli USA, racconta la Bolivia di chi va via, di chi arriva come straniero, di chi scappa, di chi non ci vuole tornare. Racconta un mondo dove i culti andini sono ancora fortemente presenti eppure il suo narrare è privo di ogni esotismo: il richiamo dell’arcano si interseca puntualmente con altro, un passo dentro e uno fuori. Ma quando si è dentro, ci si sta fino al collo. Al lettore non viene esplicitato nulla: localismi, parole in aymara, riferimenti alla cultura locale. Rivero racconta storie di cui già sa tutto, senza bisogno di illustrare al lettore i passaggi intermedi. L’obsoleto è sparso fra le righe e confuso in un’aggettivazione che va dritta alla pancia e al cervello.
“Ecco l’orrore abbagliante, un ammasso di germi in costante fioritura; ecco la sudicia placenta del mondo. Ed ecco anche, osceno e nevrotico, il nostro desiderio insistente di avere un figlio, un figlio che ci legasse per sempre, che ci obbligasse a superare i labirinti assurdi delle nostre rispettive personalità, un labirinto come orizzonte” (“Yucu”)
Decidere di tradurla in Italia è un atto di coraggio, un investimento più che meritato su un’autrice di questo calibro. D’altronde non è una novità che la casa editrice che le fa da madrina, Gran Via Edizioni, ami sfidare le logiche del mercato per puntare tutto sulla qualità e lo spessore.
La lettura di “Ricomporre amorevoli scheletri”, infatti, avvicina dolcemente all’incontro con Tupac Catari -leader aymara della rivolta indigena-, alla bandiera whipala -bandiera indigena boliviana-, a un Evo Morales che compare sotto mentite spoglie nei racconti, alla “lirica delle foglie di coca” (p. 214). E ancora, alle infinite sfaccettature del mestizaje. L’atmosfera che si respira è a tratti rarefatta come quella delle altitudini andine. Nessun folklore, nessun esotismo, eppure il lettore non aduso a questo tipo di ambientazioni si trova, a sua volta, a ricomporre qualcosa insieme all’autrice, annotando parole e riferimenti sconosciuti per informarsi e riuscire ad orientarsi.
Ricostruire, ricomporre: molti racconti si aprono con dialoghi, incontri da cui scaturiscono ricostruzioni degli universi distanti che ognuno si porta dentro. Racconti come uroboros che si concatenano, storie gemelle che si guardano allo specchio sfaccettandosi, temi che tornano, immergendo il lettore in universi ogni volta diversi in cui alcuni elementi tornano e si fanno unica costante a cui appigliarsi.
In italiano, il lavoro di ricomposizione lo ha fatto il gruppo di M. Lefevre: un lavoro a più mani riuscito benissimo.
Con l’alternarsi ben cadenzato di fantascienza, stile gotico, richiami a miti precolombiani, distopia e temi di attualità, Rivero scava sempre più a fondo fino ad azzardare il nesso fra acne e cocaina, vivi e morti, presente e passato. È l’autrice, con il suo modo di narrare, a seminare metafore sottili che scivolano nel simbolo senza troppa retorica.
Il suo lavoro di ricomposizione è anche recupero linguistico che rema contro la globalizzazione pur senza sfuggirle completamente, diluendocisi in una dissonante armonia. Non c’è campanilismo: c’è il tentativo di raccontare un patrimonio culturale e linguistico recuperando qua e là, senza forzature, pezzi di un mondo che da qui possiamo a malapena immaginare.
“Tante storie – la stessa storia – nella propria mente”: cito uno dei racconti, eppure questa frase ben descrive la raccolta. Declinata in quindici varianti, l’unica grande storia che l’autrice boliviana tenta di raccontare è quella di un paese dai mille volti in cui individuiamo numerose costanti. Sono trame sottili e allusive, le sue, che risvegliano un senso di inquietudine di fronte all’ignoto, nel tentativo di decifrarlo.
Fra i temi che tornano, la sfera intima, le relazioni: l’anzianità, gli origami della signora Keiko, la tenerezza della senilità nel “presente dilatato della vecchiaia”, la fratellanza e l’infanzia che nei racconti non sono mai innocenti, la compassione che sfocia nella crudeltà, le relazioni che si sgretolano, uomini e donne che si alimentano come belve, seguendo un richiamo primordiale.
“Nulla si spreca, tutto si trasforma, contiene se stesso, in un egoismo molecolare mascherato da frugalità. Forse era per quello che mi sentivo così bene in quel tropico aggressivo, per quell’etica selvaggia al momento di sedersi a tavola.” (p.39, “Yucu”)
E la sfera intima non si limita ai soli rapporti fra gli umani: forte è la presenza di animali che si posizionano in comunione con l’uomo, come alleati, come esplicitazione di ciò che l’umano, irrigidito nel suo goffo raziocinio, non dice.
“Lucia, la gatta, è sempre stata più astuta. Non si fidava troppo degli umani, sospettava che fossimo esseri crudeli, nel modo in cui puoi essere crudele quando sei umano. O forse, semplicemente, Lucia percepiva le nostre cuciture, gli errori dei rammenti, le cicatrici sorte dalle nostre paure, e per questo sgattaiolava via scontrosa tra i vasi di fiori. Nel mio caso, era terribile avere nove anni ed era sempre più difficile continuare a fingere, continuare a mentire a tutti sulla mia fragile bontà. La gatta intuiva perfettamente questo dilemma e miagolava sarcastica dal davanzale della mia finestra.” (“Cagne e soldatini”)
O, viceversa, sono temuti perché ricordano la parte più istintiva, imprevedibile.
“Le ragioni degli animali sono sempre strane e, se cerchi di capirle, rischi di andare fuori di testa.” (“Cagne e soldatini”)
E poi c’è la Natura: presente, possente, minacciosa, prepotente, imponente, gravita attorno ai personaggi.
Uomini, animali e natura non sono soli fra le pagine del libro. “Tutto è pieno di fantasmi” leggiamo in “Passò come uno spirito”. Ancora una volta, la frase del racconto ben descrive la raccolta. Scorrendo fra le righe sentiamo forte il richiamo dei fantasmi andini, l’eco della Pachamama, dello sciamanesimo degli antichi culti inca. Mentre Rivero ricompone corpi, gli spiriti aleggiano fra ieri oggi e domani, pervadono lo spazio-tempo in un parallelo lavoro di unificazione.
Francesca Lazzarato nel suo articolo sul Manifesto ha definito la raccolta dell’autrice “collezione di pezzi anatomici repulsiva e insieme stranamente sensuale”. La suddetta sensualità, per un qualche rigurgito romantico, risulta proprio dall’accostamento continuo -a volte pacifico, a volte conflittuale- di spirito e corpi. Nella frammentazione, tutto comunica. Le stesse parole dell’autrice evocano fantasmi, suggeriscono connubi evanescenti. A volte i fantasmi sono lo spauracchio messo avanti per nascondere ciò che di davvero inquietante c’è e non deve essere diffuso, come nella comunità dei mennoniti nella colonia di Manitoba, le cui vicende terrificanti ho scoperto proprio grazie ad uno dei racconti di Giovanna Rivero.
Funziona esattamente così: senza giudizio e senza scopo didattico, i racconti portano alla luce sfaccettatissime (potenziali) realtà. Il lettore non è guidato, non c’è traccia di glossario, la narrazione rasenta l’ermetismo. Rivero non scrive per un pubblico preconfezionato, ed è una forma di spontaneità artistica apprezzabilissima. Eppure un glossario sarebbe stato riduttivo. Lo si capisce portando avanti la lettura: la Bolivia non si può incasellare in un glossario. Penso che i limiti del lettore medio italiano nel cogliere tutti i riferimenti possano essere anche il privilegio che lo porta all’esperienza di godimento estetico della lettura. Non si legge con la testa ma con la pancia, insieme agli spiriti, agli stranieri e ai pazzi che vivono nei racconti.
C’è una pazzia ereditaria che si impossessa di interi villaggi insieme ai demoni, c’è l’Alzheimer, ci sono colpe da espiare insieme, colpe tramandate da generazioni, ossessioni per l’igiene, lussuria spiata di nascosto senza autorizzazione. Ci sono i pazzi ma anche gli stranieri e i migranti: a partire dai personaggi in “Yucu”, ritroviamo poi più volte citato l’ufficio immigrazione, gli emigranti boliviani, fino ad arrivare, con “Albumina” ai viaggi interstellari.
Ci si muove, sempre, che sia in contesto arcano, attuale o futuribile. Un passo dentro e uno fuori dalla Bolivia: compare un pezzo di Giappone in Bolivia con la colonia di Okinawa (dove i coloni si sono insediati fra il 1954 e il 1979 e dove tuttora si trovano i cosiddetti “japanese bolivians”), c’è il Messico, il Canada, Miami. È questo viaggio dentro e fuori che agevola e obbliga al lavoro di ricostruzione: cosa resta della Bolivia, quando te ne vai?
Restano gli scheletri, un pelo di nostalgia e l’atto d’amore che soggiace nel ricomporli.
Non c’è nulla di più gradevole del tentativo -perfetto? imperfetto? non importa- di dar voce alle cose senza forzarle a parlare. E con le sue metafore, lasciando parlare una realtà da decifrare, Rivero fa proprio questo.
“Ricomporre amorevoli scheletri”
Giovanna Rivero
Gran Via Edizioni
€ 16,00
Acquistabile QUI o nella vostra libreria di fiducia