Liberi tutti
Al momento giusto, scattò indietro verso il bosco, attraversando quel che rimaneva del prato in estate. La paglia secca e pungente gli tagliava le dita nude, impedendogli di procedere più decisamente. Il sole lo confondeva.
Abbandonò a metà il rettangolo giallo del campo, dirigendosi a sinistra sulle pietre. Lì cominciò a correre in discesa: ignorò miracolosamente gli ostacoli del terreno e si ritrovò quasi addosso ai cipressi assediati dall’edera, a ridosso della recinzione.
Lo schianto rovinoso fu fermato dalle punture dei rovi di more che lo fecero saltare all’indietro. Qualcosa gli piombò sulla testa, ma non si fermò a capire cosa. Gli sembrava che persino le cicale facessero la spia.
Non aveva molto tempo, doveva trovare subito il posto adatto. Proseguì lungo la recinzione e si ritrovò tra i piedi i sonagli delle fate. Sorrise. Urtò appositamente contro un ciuffo di fiori gialli ancora appeso al ramo per vedere se suonassero. Ma fu un attimo: qualcuno poteva sorprenderlo mentre era ancora in ricerca e sarebbe stata la fine.
Oltrepassò il cancello verde, incastrato tra i piloncini di pietra, ma si accorse che il catenaccio non c’era e poteva entrare.
Poteva entrare? Davvero? Lì dentro non sarebbero venuti di certo a cercarlo, ma… si fermò a sentire il proprio respiro. Assaporò finalmente la frescura dei cipressi. Le orecchie gli ronzavano. Si passò una mano sulla fronte sudata. Doveva decidersi. Con cautela tornò al cancello e lo spinse con tutta la sua forza, avendo cura di richiuderlo dietro di sé.
L’aveva fatto. Era passato. E ora? Dove andare? Davanti a lui trovò la grande casa in pietra grigia, con il portone e le finestre messi in risalto da mattoni più chiari. Era la prima volta che la vedeva da vicino. L’istinto gli diceva di avvicinarsi e nascondersi dietro a un muro: proprio in quel momento sentì le campane segnare il tempo. Nove, dieci, undici. Lo prese come un buon segno.
Raggiunse il fianco destro della costruzione e si appiattì contro il muro fino ad aderirvi completamente. Adesso, almeno per un attimo, poteva chiudere gli occhi. Sfiorò con le labbra la pietra incrostata. Era fresca e salata. Anche le cicale gli diedero un po’ di tregua. Rimase così per una breve eternità. Poi ricominciò la delazione degli insetti e tutto si rimise in moto. Riaprì di scatto gli occhi e strisciò fino allo spigolo, in guardia.
Iniziò a farsi vivo il vento, ma non gli arrivavano più le voci degli altri. Qualcuno lo stava sicuramente cercando. Doveva essere sulle sue tracce. Bisognava rimanere all’erta. Nessuna voce. Nessuno strepito di passi. Non c’era nessun altro. E se invece si fossero dimenticati di lui?
Ma un’eco lontana lo raggiunse insieme al quarto d’ora della campana:
“Battipanni liberi tutti!”
“Ci sono ancora io!”, pensò a voce alta, ma rimase ancora lì, abbracciato alla pietra, e sulla bocca tornò a sentire il sale.
§§§
Non era quello il sapore che aveva adesso in bocca. Quanti anni erano passati da quell’unica volta che aveva giocato con gli altri ragazzi del paese? Non lo ricordava più. Ora aveva addosso la stessa sensazione: com’è che si trovava lì, alla fine del mondo, senza nessuno? E che ci faceva quel sapore di ferro e sangue sulla lingua? Che aveva fatto? Si era andato a nascondere così bene che non lo avrebbero trovato.
Neanche i suoi, al paese, lo avrebbero trovato. Meglio così, forse, meglio così che la vergogna di uno che non era stato capace di mandare a casa niente, neanche una cartolina, negli ultimi mesi. Forse neanche lo avrebbero cercato, o forse avrebbero mandato suo fratello minore a capire dove si fosse cacciato. Era stato lui a chiamarlo:
“Vieni all’America! Lavoro ce n’è per tutti!”
Sì, certo. Il lavoro non era mancato, ma neanche le bastonate degli operai convinti che quel lavoro glielo stessero rubando, le notti di freddo cane, le dita a pezzi e la schiena distrutta, la fame nonostante questo e il disprezzo negli occhi degli altri. Che cosa doveva raccontare a casa? “Io sto bene, così come spero di voi.”
Ora sperava soltanto che quell’agonia finisse presto: lo sperava automaticamente, senza coscienza. Fra poco sarebbe rimasto solo il suo corpo qui, e non avrebbe sofferto più. Il resto, la parte più importante… chissà se era vero che quelli come lui andavano all’inferno. Lui c’era già stato, a ogni buon conto, e quello che aveva visto gli era bastato. Era per questo che si trovava così, riverso sugli scalini di uno dei fabbricati di mattoni rossi del cantiere, vicino alla ferrovia, in mezzo al piscio dei gatti, al fango e alla pioggia di quei giorni d’autunno, con un proiettile in testa. Non lo avrebbe cercato neanche il suo amico Chuck al quale doveva dei soldi, né Maria a cui non aveva tempo di pensare.
Rivide quella casa di pietra in cui era andato a nascondersi da bambino: era il palazzo del Barone e lui là dentro era un intruso. Anche qui, in questo angolo d’America, era un intruso: anche qui guardava dalla strada i padroni mangiare e bere, vestire bene e fare affari, come il Barone al paese. Lui non sarebbe mai stato come loro, anche se avesse continuato a faticare come un cane per il resto dei suoi giorni. Parlava il meno possibile, cominciava a capire qualcosa di quella lingua strana, ma i suoi compagni parlavano dialetti altrettanto sconosciuti.
Qualcosa si stava muovendo intorno a lui: forse veramente lo stavano cercando e lo avevano trovato. Suoni incomprensibili. Tanto fra poco sarebbe finita, poteva lasciarsi andare.
“Ti vitti, Pippinu!” avrebbero urlato i bambini con cui aveva giocato a nascondino quella volta.
Per prima cosa lo portarono in prigione. Poi qualcuno suggerì che forse il posto più adatto potesse essere l’ospedale. Gli diedero un letto con le lenzuola pulite, bianchissime. Se l’avesse potuto vedere si sarebbe commosso per quanto erano bianche. Una suora si prese cura di lui, nel giorno e nella notte che gli erano rimasti.
Un compagno, dopo qualche ora, l’aveva riconosciuto. I giornali, che prima avevano pubblicato la notizia dell’“italiano a prova di proiettile” che poteva essere utile a Vittorio Emanuele per la guerra contro la Turchia per la conquista della Libia, furono costretti a correggere il nome provvisorio con un altro che suonava quasi come quello vero.
Il suo nome sbagliato finì nel registro del medico legale e in quello dei morti della città di S***, nello stato di Washington. Fu sepolto in un cimitero dal nome incantevole, ma nessuno trovò i soldi per scrivere il suo nome su una pietra.
Quando lo avrebbero trovato, avrebbe corso fortissimo verso l’ulivo al centro del campo e avrebbe urlato a squarcia gola:
“Liberi tutti, libero me!”