Era il 13 maggio 2014
Mi trovavo in piedi, era il 13 maggio del 2014, sguardo fisso ma non assente. Faceva caldo.
Quella mattina gettai un pugno di terra, non soltanto sulla bara di mio zio Salvatore, ma su tutto il resto della famiglia che porta il mio stesso cognome, con discendenti annessi e connessi.
Nessuno escluso, in scala gerarchica, percorrendola sia a scendere che a salire, dal più piccolo al più grande.
Insomma, tutti.
Insieme a quella terra cadeva pesante, come una sentenza, una promessa solenne. Una promessa di rispetto verso me stessa.
Ognuno di loro per me, da quel preciso istante, era seppellito insieme a quella bara. Mio zio, buonanima chiuso lì dentro, non credo potesse essere a conoscenza dell’ennesima carognata che era stata fatta anche nei suoi confronti dal suo stesso sangue, dai suoi stessi figli.
O forse si.
A mio padre venne proibito di assistere al suo funerale.
Mio padre, uomo buono ma con lo sguardo duro.
Per i suoi fratelli, per la sua famiglia d’origine, era sempre pronto a scendere anche a patti col demonio se fosse stato necessario.
La famiglia di mio padre era la classica famiglia siciliana, numerosa. Sette figli in tutto, morti premature comprese.
Ai tempi la televisione era davvero un lusso.
Figli di un dopoguerra, cresciuti a patto che fossero loro a campare la famiglia.
Mio nonno, riferendosi ai figli mandati a lavoro sin da piccoli, diceva sempre “E chi mi fici i pusati pì mmanciari ch’i manu?” (“E io mi son fatto le posate per poi mangiare con le mani?”).
Amava essere servito e riverito.
Se loro, mio padre ed i miei zii, erano al mondo, era tutto merito suo e dovevano essergli debitori.
In quanto debitori erano anche delle grandi camurrie (scocciature), dovevano quindi meritare di vivere provvedendo al sostentamento di tutti.
Mio padre ricorda ancora con le lacrime un’infanzia letteralmente mai vissuta e il rumore della cinghia.
“Enzo, susiti cà è tardi.” (“Enzo alzati, è tardi.”)
La voce di mia nonna era l’unica dolce consolazione che avevano quei ragazzi.
Enzo si alzava. Al mattino a scuola, poi a casa.
E di corsa a mangiare qual modesto piatto di pasta che nonna gli faceva trovare in tavola per poi correre via, insieme a suo fratello Salvatore, per prendere il filobus che li lasciava nel cuore di Palermo.
Poco più che ragazzini, loro lavoravano in un bar di Via Cavour fino a tarda sera. Mio padre era undicenne e mio zio Salvatore quasi suo coetaneo, forse tra loro correva solo un anno di differenza. In realtà non l’ho mai capito.
Una vita passata insieme per poi essere separati in un attimo. Quella mattina gettai un pugno di terra, non soltanto sulla bara di mio zio Salvatore, ma su tutto il resto della famiglia che porta il mio stesso cognome, con discendenti annessi e connessi.
Scelte diverse, amici diversi, e poi arrivano le mogli.
Arrivano le cognate acquisite, mogli dei fratelli di mio padre e lì la famiglia perde un qualsiasi equilibrio raggiunto negli anni, tra falsi sorrisi, festività comandate, abbracci e baci così finti da far invidia ad un qualsiasi Iscariota.
A mio padre, quel 13 maggio del 2014, venne proibito dal resto della sua famiglia, di dare un ultimo saluto a quel fratello tanto amato, e forse odiato allo stesso tempo.
Insieme alla terra sopra la bara di mio zio Salvatore, giace la mia promessa.
Quel pugno chiuso, quelle lacrime mai versate, sono il sigillo di una totale indifferenza nei confronti di chi ha saputo soltanto distillare odio in risposta a quello che un tempo era invece affetto e amore incondizionato tra fratelli.
Che il tempo stia lì a guarire le nostre ferite, ho sempre creduto e sostenuto fermamente che fosse un’emerita falsità.
Il tempo stesso continua a darmi ragione su questa mia convinzione.