Il fiume – V – Nigel Mansell
È che… si, insomma, ha presente una corsa di auto? Anche di moto va bene. Però se sono auto è meglio perché a lui le auto piacevano di più. Mettiamo che parti dal fondo e davanti c’hai tutte le auto degli altri. Che fai? Si, certo, puoi anche fare corsa con quelli che hai lì vicino. Quelli scarsi per intenderci. Ti accontenti. Ma mettiamo che superi uno e poi ne superi un altro ancora e poi inizi a vedere lassù in cima la testa della corsa. Ecco, allora inizi a schiacciare l’acceleratore no? E vai, vai, superi tutti perché senti che il tuo posto non era laggiù in fondo dove ti avevano messo, ma in cima.
Katia passò la canna a sinistra, alzò la testa e seguì la traiettoria di un falco nel cielo. Un sottile velo di umidità faceva da sfondo agli esercizi di stile del volatile. Come ogni anno la fine di luglio si accompagnava a un cielo sempre meno terso.
“Bello” disse Katia.
“Cosa?” chiese qualcuno nel gruppo.
“L’uccello”
“Il mio? Ti piace troiona, vero?”
“Vai affanculo”
Anche Katia partecipò all’ilarità generale. Un’ilarità nevrile, di cartine Rizla e birre Beck’s. Il falco uscì dallo schermo visivo della ragazza. Katia si guardò attorno. Un lieve capogiro la portò, d’istinto, ad aggrapparsi alle ginocchia. Le cicale frinivano così forte da coprire il rumore dell’acqua nel fiume. Quel frastuono le dava fastidio. La faceva sentire ancora più stordita e, in generale, le metteva ansia. Sentì il cuore farsi largo tra le costole.
“Ma la cassa portatile che fine ha fatto?” chiese.
“Non lo so. Ce l’aveva il Cesa, mi sa”
“Cesa che cazzo fai, sei in botta per una canna? Metti su qualcosa dai. Non le senti ste cazzo di cicale? Mi fanno impazzire. Che morissero, cazzo”
“Sei tu in botta mi sa, Ka”
A volte dico cose, sa? Aspetti, le spiego meglio: magari sono al fiume e mi fisso a guardare qualcosa. Cioè, punto lo sguardo lì, ma non è che guardo precisamente quella cosa. Penso. E poi, come le dicevo, mi capita di parlare. Non un vero e proprio discorso. Cose senza senso. Adesso, io le dico questo, ma c’ho anche un po’ vergogna a dirlo. Ma se non lo dico a lei a chi lo dico, del resto? Allora, l’altro giorno ero al fiume e guardavo un cane. È un cane nero che gira sempre per di lì. E poi mi accorgo che sto canticchiando “Ninna nanna ninna-o, questo culo a chi lo do?” Si rende conto? E poi certo che mi spavento. Me lo dica lei se è normale.
A Katia quel giorno tutto pareva così ripetitivo e incredibilmente statico che per un attimo si sentì della stessa sostanza delle rocce che osservava di là dal fiume. Immaginò di avere sulla schiena quelle striature di quarzo che dalla cima scendevano parallele verso il fiume e che rimirava ogni estate da vent’anni a quella parte. Scrollò la testa e si sfregò gli occhi con le mani. Percorse con l’indice un paio di tatuaggi sul braccio e sulla gamba. Poi prese il telefono dalla borsa e lo usò come specchio. Il chiaroscuro accentuava le occhiaie. Qualche capillare aveva ceduto, ma si sarebbe risistemato tutto nel giro di un quarto d’ora. Il trucco era da sistemare al più presto. Troppe occhiaie, troppe sbavature. Osservò la sua mano lisciare la frangetta nera. Accarezzò il naso. Le piaceva guardarlo allo schermo del telefono, i chiaroscuri donavano ai lineamenti un’armonia che lo specchio di casa non concedeva. Sporse le labbra a mo’ di bacio e si soffermò nuovamente sulle occhiaie. Se riuscissi a dormire qualche ora in più, pensò. Posò il telefono e si guardò attorno. I ragazzini provavano i balletti di Tik Tok. Il cane del fiume li osservava e pareva non comprendere. Più a sinistra, a una decina di metri da loro, lo sconosciuto era intento a scarabocchiare su un taccuino giallo. In acqua, a metà strada tra l’uomo che lo accompagnava e i ragazzini suoi coetanei, il ragazzino biondo guardava quei balletti e sorrideva. Tra i dinoccolati ballerini si distingueva per esuberanza una ragazzina dai lisci capelli biondi. Strillava, zampettava, pareva frinire come una cicala. Fino a risultare, agli occhi di Katia che la stava osservando, un tantino deficiente. Era una irriconoscibile Giulia. Giulia08 per gli amici di Tik Tok.
“Toni”
“Dimmi Ka”
“Adesso facci caso a sta cosa”
“Cosa?”
“Adesso io mi alzo su e mi giro un po’ su me stessa”
“E beh? Che mi frega?”
“Tu guarda quel tipo là con i riccioli neri”
“Quale?”
“Quello là che parla con la moglie dell’altro”
“E se la tromba pure”
“Ma lo conosci?”
“Ma si, sicuro lo conosci pure te”
“Mi pare di ricordare qualcosa. Vabbè, comunque, tu facci caso come mi guarda il culo. La settimana scorsa l’ho sgamato che mi faceva una foto. Ho fatto finta di niente ma in verità l’ho sgamato in pieno”
“E dai?”
“Te lo giuro”
“Vecchio porco. Beh, non mi stupisce. Quindi te la posso fare anche io una foto a quel tuo culo da Oscar?”
“Sfigato. Ma insomma chi è che sarebbe?”
“Mimmo. Lo conosci sicuro”
Se c’è una cosa che ricordo fin da quando ho, appunto, i ricordi, è questo bisogno che qualcuno mi dicesse che si, sono bella, che gli piaccio proprio. Vede Dottore, che mi dicessero che ero intelligente non mi interessava molto. Ma che ero bella si. Non lo so il perché, ma a me interessava quello. Però la verità è che non piacevo molto. Ricordo che il primo anno di centro estivo, in piscina, c’era una ragazzina di nome Erica e tutti i maschi stavano attorno a lei. Gli schizzavano l’acqua, la buttavano in piscina. Quegli scherzi che si fanno per attirare l’attenzione. Erano tutti per lei. Io me ne stavo con un’altra mia amica e guardavamo. Poi alla sera mi guardavo allo specchio e mi trovavo insignificante. E li capivo eccome se schizzavano l’acqua a Erica invece che a me. Vede, i maschi non ti schizzano l’acqua addosso perché sei intelligente. E ricordo che lui era di là e guardava il Gran Premio e forse non guardava mica sempre il Gran Premio. Ma io lo ricordo così, mio padre, mentre guarda il Gran Premio e dice che i piloti di adesso non valgono un cazzo e Nigel Mansell, si, Nigel Mansell era un gran pilota.
“Ho capito”
“Cosa?”
“Ho capito chi è. Ora ricordo.”
“Chi, Mimmo?”
“Si. Me lo ricordo. Gestiva l’animazione quando io ero al centro estivo da ragazzina. Sette o otto anni fa.”
“Si, ci sta”
“E sai cosa mi ricordo? Che ci provavo con lui”
“Cosa? Ma dai, ma quanti anni avevi?”
“Quattordici, ma che c’entra? A quell’età ci sta che prendi la cotta per il tipo adulto. Poi sai bene, capirai come ci provavo”
“Come?”
“Ma boh, sai bene, mi erano spuntate le tette e il culo. E avevo iniziato a fare degli esercizi a casa. Si, mi sentivo un po’ carina. Puntavo direttamente al bersaglio grosso. Altro che gli sfigatini della mia età”
Mio padre diceva che questo Nigel Mansell sapeva mettere a punto la macchina come nessun altro. E io non sapevo cosa intendesse e a dire il vero non mi interessava nemmeno. Ma a mio padre piaceva parlare di queste cose e mi spiegava che le macchine di Formula 1 escono di fabbrica in un modo, ma poi sta al pilota e alla scuderia renderle perfette. Come se prima fossero blocchi di marmo ancora da sbozzare. Ecco: questa cosa che mi disse mio padre, Dottore, questa non l’ho mai dimenticata. Ricordo ancora che il giorno dopo, tornata dalla piscina, mi guardai allo specchio e mi vidi proprio così, come una Ferrari appena uscita dalla fabbrica. Non ero un cesso. C’era da lavorarci su, tutto qui. E io ci ho lavorato su. Eccome se ci ho lavorato”
“Allora è il momento buono, ti puoi rifare” disse Toni ridendo e indicando Mimmo che, seduto a una ventina di metri da loro, inequivocabilmente da dietro gli occhiali da sole osservava i glutei di Katia, ora in piedi.
“Ma va là, è un morto di figa”
“Beh, a dire il vero si dice che di figa per le mani non gliene manchi”
“Sono contenta per lui. Magari quando avevo quattordici anni gliela avrei data. Peccato” Katia si accese una sigaretta e guardò in direzione dell’uomo sconosciuto. Si mise gli occhiali da sole, espulse il fumo dalle narici e chiese “Toni, dello sconosciuto invece che mi dici?”
“Che vuoi che ti dica, Ka. Nessuno sa niente di quello. Dicono addirittura che il biondino potrebbe non essere figlio suo. Ma sono voci. Io ti ripeto che non so nulla”
“E non parla mai con nessuno questo?”
“Nessuno”
“Però. Che tipo” Katia si portò la sigaretta alla bocca e la mano sul seno sinistro. La seconda falange dell’indice incontrò il capezzolo.
Non c’è niente di cui abbia fiducia come del mio di dietro. Non mi giudichi, Dottore. No, lo so che il suo lavoro non è giudicare, ma mi viene da dire questo perché io sono la prima a giudicare me stessa a volte. E chissà cosa direbbe mio padre. Però è così: la testa mi ha creato tanti problemi, il di dietro invece me ne ha risolti un sacco. È da quando ho cominciato a lavorarci su che le cose sono migliorate. Palestra. Vestiti giusti. Anche i tatuaggi. La risalita dal fondo è iniziata dal sedere. Posizione dopo posizione fino al vertice. A volte però mi pare di sbandare un po’. E non ci capisco più molto in quello che faccio. Faccio cose, ma non so se sia giusto farle e soprattutto perché le faccia. Come se tutto avesse preso una velocità impossibile da controllare. Forse ci sono arrivata lassù in cima alla corsa dove volevo arrivare, ma ora? Cosa farebbe Nigel Mansell Dottore? Ora mi viene da ridere, come vede. Ma non c’è niente da ridere. Se ci fosse ancora Papà glielo potrei chiedere. Magari non sarei nemmeno qui, se ci fosse ancora lui.
Lo sconosciuto si infilò una maglietta blu a tinta unita, raccolse l’asciugamano e lo infilò sottobraccio, infine si incamminò verso i campi. Il biondino aveva già guadagnato una decina di metri e giocherellava con il cane del fiume che aveva anch’esso preso la strada dei campi. Il tardo pomeriggio gli aveva stimolato l’appetito. Una nuova battaglia si sarebbe presto scatenata tra il cane e i contadini dei campi. L’uomo passò di fianco ad una ragazza. Era una bella ragazza, capelli tinti corvini appena oltre le spalle, frangetta, naso deciso, occhiali da sole con montatura a farfalla, una seconda abbondante di seno. Tatuaggi, tanti tatuaggi un po’ ovunque. L’aveva intravista prima insieme a un gruppo di amici. Odoravano di erba e di birra calda e rancida. Ma ora la ragazza era rimasta da sola e questo all’uomo parse strano. La ragazza lo guardò, alzò gli occhiali da sole sulla fronte e sorrise. Il trucco allungava la mandorla degli occhi oltre misura. Quindi si alzò e nel farlo gli diede la schiena. Gli occhi dell’uomo seguirono le vertebre della spina dorsale fino al sedere della ragazza. Rotondo, tonico, giusto un poco coperto dalla stoffa di uno striminzito costume. Mentre le passava di fianco notò un tatuaggio sull’anca: due iniziali, B.M., e una piccola auto da formula 1. Dieci metri più avanti l’uomo si voltò nuovamente. Katia lo osservava. Si accese una sigaretta e sorrise di nuovo. Gli occhiali scesero a coprirle gli occhi.