Anna, la stella cadente di Bologna
Al mio arrivo in Italia avevo deciso di non andare subito nella “mia” Sicilia, ma di visitare una città in cui ero stato da bambino coi miei genitori, Bologna. Ne ero rimasto folgorato e non vedevo l’ora di rivederla. Coi miei pochi bagagli, mi ero trasferito in una piccola pensione in via Dè Piatesi. Era un posto carino, pulito ed accogliente. I proprietari erano delle brave persone. La città era stupenda come la ricordavo, non eccessivamente grande e rumorosa come le metropoli statunitensi. C’era anche un buon fermento culturale, i locali proponevano sempre ottimi gruppi emergenti. L’università pullulava di studentesse e la fica ha sempre funzionato da calamita nei miei confronti. Se fossi stato un cane sarei stato un ottimo segugio, ne sono sicuro.
Dopo qualche mese senza far nulla, avevo trovato un impiego che mi permetteva di sbarcare il lunario. Fortunatamente una testata giornalistica cercava corrispondenti che stessero sulla strada scrivendo articoli sulla qualunque cosa succedesse in città. Ognuno di questi era pagato a seconda dell’importanza dell’argomento e dello scoop che poteva generare. Mi andava bene e mi davo da fare rimanendo fino a tarda notte in giro. In fondo era la strada la mia vera casa e quindi avevo accettato immediatamente l’incarico. Non è che poi ci fosse chissà cosa da scrivere ma aguzzavo l’ingegno e trovavo sempre il modo di presentarmi in redazione con un mio articolo con tanto di firma.
Ero un tipo scanzonato e mi ero fatto conoscere immediatamente dagli assidui frequentatori della vita e della movida bolognese. Puttane, magnaccia, spacciatori, kebbabari: Sal Goodson lo conoscevano tutti, come in tutti i posti in cui era già stato. Insomma avevano imparato a volermi bene e io ne volevo a loro.
Iris ci provava ogni notte a farsi trombare da me: Sal per te la mia patacca è sempre a gratis!
Amore lo so ma facciamo un’altra sera, sono stanco ora – le dicevo in modo gentile.
In realtà scoparmela mi ripugnava molto. Iris era una puttana che lavorava sotto casa mia e se la facevano tutti, ma proprio tutti tutti. Le volevo bene ma non me la sarei fatta nemmeno dopo una scorpacciata alcolica al Cucchiaio d’Oro al Pratello. Un pomeriggio mentre passavo dalla Fontana del Nettuno, fui rapito nel vedere sui suoi scalini una figura esilissima, coperta da un cappuccio e un cappotto verde militare che scarabocchiava un foglio del block-notes con una matita. Quel piccolo pezzo di legno e grafite nelle sue mani scheletriche sembrava un grosso tronco di legno.
Con la scusa di rullarmi un po’ di tabacco mi sedetti vicino e cercai di capire se fosse un uomo o una donna quell’essere umano.
Ehi tra poco piove conviene che ti togli da qui – dissi.
Mmmh – fu l’unico verso che uscì dal suo corpo.
Era una ragazza, lo scoprii quando voltandosi per vedere chi fossi le scivolò il cappuccio via dalla testa. I capelli erano biondi, gli occhi scuri, il volto incavato. L’età invece era indefinibile, poteva avere 20 anni come potrebbe averne avuti 40. Rovinata, con le borse sotto gli occhi, qualche dente andato. Ma non era sempre stata così, doveva essere stata bella tempo addietro, si capiva da una semplice occhiata.
Tornai a rivolgerle la parola: che è che disegni?
La solitudine – rispose.
Vediamo cosa ne è uscito fuori.
Girò il block-notes verso di me e c’era sto foglio bianco e in mezzo sbucava dal nulla un tronco d’albero spoglio, coi rami aguzzi, nero, ricalcato più e più volte, con rabbia.
Com’è che ti chiami?
Anna. E tu? – mi chiese
Sal Goodson.
Straniero chi ti porta qua. Sei qua a studiare?
No lavoro per il quotidiano ********, me ne sono venuto qui dagli Stati Uniti ma i miei nonni erano siciliani.
Ripiegò tutto e lo mise in una tracolla sdrucita. Fece per alzarsi ma quasi cadde, con una mano riuscii ad afferrarla. Era più leggera d’un fuscello!
Ascolta Anna, ora si va in qualche posto all’asciutto, mi fai compagnia mentre mangio qualcosa. Ci stai?
Sapevo che se le avessi detto che doveva mettere anche lei del cibo nello stomaco non sarebbe mai venuta. Annuì senza dire altro. Con lentezza ci avviammo verso un’osteria che conoscevo vicino i portici. Ordinai delle cose leggere in modo che le mangiasse anche lei il suo stomaco riuscisse, seppur con difficoltà, a trattenerle. Forse.
Dopo qualche renitenza, forse per non apparire ineducata davanti ad uno sconosciuto, accettò e mise in bocca qualche mollica di pane e del brodo di pollo che mi ero fatto portare.
Trascorsero una decina di minuti e mi disse che doveva andare in bagno. Sapevo cosa stava andando a fare, ma trattenerla era inutile e poi chissà da quant’era che non mangiava. Come poteva mai non ribellarsi tutto l’apparato digerente.
Dove abiti? – le chiesi
No, basta! Lasciami qua poi me ne torno a casa. Hai già fatto abbastanza. Grazie.
Come vuoi.
Evitai di insistere anche in questo caso e mi misi in cammino per via Dè Piatesi e rimuginavo come cristo può ridursi una persona in quel modo, Dio santo.
Mi ero messo in testa di dover fare qualcosa per questa Anna e quindi ogni pomeriggio con una scusa diversa arrivavo al Nettuno e andavo a trovarla. Vendeva disegni per pochi spiccioli ai turisti poi ci sedevamo in un bar lì vicino e parlavamo.
Anna vorrei aiutarti – provai a dirle una delle tante volte.
Nemmeno alzò lo sguardo che era fisso su un bozzetto che stava completando e con un filo di voce disse: La vita va così Sal. Sono una stella cadente, io.
Va bene – bofonchiai.
Non sapevo esattamente cosa volesse dirmi, ma quelle poche volte che parlava non la disturbavo. Di solito stavamo in silenzio, io la guardavo alle prese con la matita e andava bene così. Sapevo solamente che aveva trent’anni e che si era allontanata dai genitori. Non mi aveva neppure detto dov’è che abitasse. Mi andava bene anche questo.
La vedevo spegnersi, alle ossa ormai stava rimanendo attaccata soltanto l’anima e nient’altro. Avevo percepito che a farsi aiutare ci aveva già provato, ma poi non era andata per come potesse sperarsi. Quando stavo per salutarla e tornarmene al Pratello a bere come ogni sera, strappò il foglio e disse
Ehi Sal tieni questo l’ho fatto per te.
Grazie Anna – risposi sorridendole. Era il solito albero spoglio, coi rami aguzzi. La ringraziai e poi mi incamminai.
Bevvi più del dovuto quella notte e capii che quel regalo in realtà mi aveva rattristato. La mattina mi toccò andare fuori città, in un paesino a metà strada tra Bologna e Ferrara. All’alba c’era stato un furto in alcune abitazioni e dalla redazione volevano un resoconto della situazione.
Avevo appena terminato di registrare le interviste ad alcune delle vittime dei ladri, che squillò il cellulare.
Sal molla tutto e corri. C’è stato un suicidio stanotte.
Partii a tutto gas e rientrai dove mi era stato indicato, che tra l’altro era in via Parigi a qualche metro da casa mia.
Il portiere dello stabile, insospettito dal non aver visto passare puntuale come ogni giorno la persona in questione, era andato a controllare. Dopo aver bussato, non ricevendo risposte, aveva deciso di entrare direttamente in camera con le chiavi di riserva.
Salii le scale di corsa ed eccomi al terzo piano.
Sul letto c’era lei, Anna. Sul comodino due scatole di farmaci.
Si era imbottita di sonniferi e si era addormentata per sempre.
Tirai fuori dalla tasca il suo disegno e lo riguardai. La sera prima mi era sfuggito un particolare. Su uno dei rami aguzzi dell’albero spoglio c’era un piccolo fiore. Per qualche tempo, forse, ero riuscito a far rinascere un fiore che copriva l’olezzo del suo sentirsi sola.
Se n’era andata così Anna.
Anna, la stella cadente.
La stella cadente di Bologna.