Notturno
Cominciò così.
Il primo fu uno dei piccoli, con i capelli ricci, in fondo al viale di Santa Rosalia. Lasciò cadere il petalo che teneva in mano e ne osservò la caduta. Il petalo non fece rumore. Gli sfuggì un risolino. Si guardò intorno: nessuno lo aveva visto.
Provò ancora: gli bastava prenderne un altro tra quelli che teneva in grembo raccolti nel vestito, cosa non facile per chi si trova bloccato in quella posizione da quasi un secolo. Con movimenti lentissimi e piuttosto goffi, riuscì a raggiungere un altro petalo e a spingerlo di sotto. Nessun rumore. E anche stavolta, nessuno lo notò.
“Se posso muovere le braccia, potrò muovere le ali”, si disse. La faccenda implicava un certo sforzo, non solo per le piume, ma anche per l’espressione facciale, quel sorriso triste che lo rendeva uguale a quasi tutti gli altri, là dentro.
Nel frattempo, anche gli ultimi uccelli diurni erano andati a ripararsi tra le fronde dei cipressi e delle palme. Le cicale avevano lasciato spazio ai grilli e finalmente una brezza leggera dava fiato a tutte le creature vive. La luna risplendeva in tutta la sua pienezza.
Dopo alcune ore di instancabili tentativi, il piccolo riuscì a muovere un’ala. Ora che aveva capito come fare, le cose diventavano meno difficili. Certo, un po’ quella vestina ricamata gli complicava le cose, ma quando dalla chiesa antica cominciarono a rintoccare le undici, lui era riuscito a sbattere le ali per la prima volta.
Stavolta ad accorgersene fu la signora dallo sguardo severo che si sporgeva dall’altorilievo dietro di lui. “Roba da pazzi!” pensò, “ma cosa si è messo in testa?” e si guardò intorno per capire se era stata l’unica ad accorgersene.
Il verso cupo di un allocco sottolineò il secondo battito d’ali. Adesso il piccolo sorrideva soddisfatto. Riuscì a girarsi alla sua sinistra verso il suo gemello nudo che lo stava guardando con la coda dell’occhio.
— Come hai fatto? — bisbigliò quest’altro.
Non gli rispose subito. Continuava a sorridere, felice. Poi disse soltanto: — Prova.
Il vicino gemello, impaziente, cominciò direttamente dalle ali. Ciò che ottenne fu che una delle piume cadde per terra silenziosa.
— Riprova. A poco a poco — disse l’esperto.
Quando iniziarono i rintocchi della mezzanotte, i due gemelli cominciarono a sbattere le ali in sincrono. Il prossimo passo sarebbe stato scendere da là sopra.
Ormai avevano capito come fare. Uno scatto deciso e furono a terra. Ma imparare a camminare non era cosa da poco. Per fortuna avevano le ali. Tentarono qualche passo e poi si sollevarono un po’.
Il più esperto decise di avvicinarsi all’angelone della famiglia P., quello grande, in piedi, con l’urna tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto. Con qualche colpo d’ali rasoterra, i due furono ai suoi piedi.
— Ehi! Hai visto? Ce la possiamo fare. Prova anche tu.
Ma quello, impassibile, non li ascoltava.
— Psss, psss.
Qualcuno dietro di loro li stava chiamando, ma era difficile capire chi fosse.
— Sono qui sopra.
Era l’angelo-con-la-stella-in-fronte. Ritto in piedi su una colonna, teneva l’indice della mano destra alzato al cielo. L’altra mano si appoggiava a un’elica.
— Voglio scendere anch’io.
— Volere è potere, — sentenziò l’angioletto nudo. Ormai era diventato pratico anche lui.
“Se ce l’hanno fatta questi nanetti da giardino, figuriamoci se non ci riesco io”.
La sua apertura alare era senza dubbio considerevole. Alzò al cielo il braccio libero in un gesto di vittoria. Forse si aspettava gli applausi degli astanti, i quali però continuavano a reagire con apparente freddezza.
Subito dopo li raggiunse qualche altro angioletto, soffocando esclamazioni di giubilo. La stavano combinando grossa questa volta.
Cominciarono a svolazzare in cerchio, sopra i loro colleghi rimasti immobili. Dalle lapidi cominciavano a provenire versacci di rimprovero, ma anche qualche incitamento.
Qualcuna delle figure più grandi provò a imitarli. La donna disperata della famiglia H., per esempio, perennemente riversa sulla pietra, riuscì a mettersi seduta e a sistemarsi i capelli. Di più non poteva fare. Il chiarore lunare la illuminava completamente: se solo avesse avuto un volto, avrebbe sorriso anche lei.
Dal viale del Santo Padre avanzava, con qualche difficoltà, anche l’avvocato R., principe del Foro: in tutta la sua altezza, con la toga ancora un po’ rigida, era tuttavia riuscito a scendere dal basamento e raggiungere gli angeli piccini. Nonostante la sua posizione importante, gli erano sempre piaciuti gli angioletti: forse si stavano mettendo nei guai, era meglio andare a controllare.
Sì, perché quantunque gli umani discutessero da millenni sul sesso degli angeli, lei era lei.
L’avvocato R., dalla sua consueta posizione, non l’aveva mai vista. Gli era toccato scendere dal piedistallo per scoprirne l’esistenza. Anche lui era di bronzo (opera di un allievo di G.): con il suo sguardo affidabile e cordiale, sembrava venire incontro a tutti anche quando se ne stava immobile in mezzo agli altri. Ma adesso, in mezzo al viale, dovette fermarsi a contemplarla. Come aveva potuto ignorare l’esistenza di una creatura così celestiale? Pareva infatti che stesse per spiccare il volo da un momento all’altro, in un istante fissato per sempre.
— Ragazzi, andiamo a vedere cosa c’è di là! Forza!
Il pioniere aveva intravisto una balaustra in fondo al viale. La curiosità lo aveva spinto a fare il primo volo: adesso era difficile resisterle. Svolazzando o sgambettando, angioletti, angeloni, uomini vigorosi e donne piangenti raggiunsero il confine: formavano una sorta di banda di monelli a cui si aggiungeva qualche nuovo elemento lungo la strada.
— Avvocato! Venga anche lei, su! È uno spettacolo!
Le voci gli arrivavano lontane: quell’invito lo attraeva. Sarebbe andato a vedere, sì. Ma non da solo. Come ci si rivolgeva a un angelo?
— Le piacerebbe scoprire cosa c’è di là? Si può fare, sa? Se ci sono riuscito io…
Lei continuava a non guardarlo: gli occhi ispirati rivolti al cielo, le mani che fermavano le ali, il corpo leggermente proteso in avanti. Sembrava così intrepida.
Lo scultore G. osservava la scena con partecipazione. Lui non poteva. Che almeno lei tentasse… — Vai, lanciati!
Con gesti aggraziati liberò le ali, alte quanto lei. Prese lo slancio e si staccò dal basamento floreale, volteggiando sul viale e tra i cipressi, come se non stesse aspettando altro. Lo scultore G. non la perdeva di vista. L’avvocato R. era come incantato, la bocca spalancata e lo sguardo rivolto al volo della magnifica creatura.
Planò accanto all’avvocato R., gli si fece vicina senza mai appoggiare i piedi sul terreno. Proseguirono insieme, in silenzio, verso la fine del viale. Gli tremavano un poco i baffi, temeva di perdere gli occhiali in bilico sul naso. Arrivati quasi in fondo, si presero per mano, sorridendo. Si fermarono davanti alla balaustra, poco lontani dagli altri che erano intenti a svolazzare e a lanciarsi gridolini di gioia.
Giù in fondo, in mezzo a una vegetazione rigogliosa, orti improvvisati e capannoni di lamiera, scorrevano i resti argentati del fiume Oreto.
Lei gli lasciò la mano e si tuffò nel vuoto. Poi le ali si aprirono e risalì librandosi in volo. Percorse la valle fino alla sorgente e poi da lì fino alla foce, accompagnata dai suoni della notte. La luna si nascose dietro i monti intorno alla città.
La guardava in estasi: gli sembrava di essere lì anche lui, libero, a volteggiare nell’aria notturna, la toga svolazzante.
Poi lei si allontanò sopra la città, verso il promontorio sul mare, a nord-ovest, e tutti rimasero col fiato sospeso.
Le prime luci a est stavano per rivelare a tutti le forme della città e della valle, oltre il confine. Lei riapparve sopra di loro, fece un ultimo giro di ricognizione e poi tornò, appoggiando i piedi alla balaustra.
Non disse una parola. Gli altri cominciarono a chiederle di raccontare, lei che aveva visto… ma qualcuno ammonì che il sole si era già levato e che era meglio tornare ai propri posti, prima che qualcuno potesse scoprirli.
Si congedarono in silenzio, a gruppi o a coppie, con un sorriso di complicità. Qualcuno agitava divertito le manine prima di riprendere petali e lampade di pietra.
Procedeva seria e raccolta verso la nicchia floreale che la attendeva. Le porse la mano per aiutarla a riprendere il suo posto. Lei ringraziò e, con un lampo negli occhi, sussurrò:
— Ancóra.
Poi tornò a concentrarsi nella sua posa consueta, le mani a trattenere le ali, il corpo fremente pronto per un altro volo.
Lui se ne tornò, camminando a ritroso verso il piedistallo, da dove non avrebbe più potuto vederla. Non riusciva a separarsi da lei, eppure doveva. Passò davanti alla testa dello scultore, che sorrideva compiaciuto.
I cancelli si aprirono poco dopo.
Qualcuno disse che l’avvocato R. non era più lo stesso, che sembrava più triste. O forse più felice.