L’ultima notte – Primo classificato Premio Patti 2020
Accogliamo su queste pagine il Primo classificato al Premio Patti 2020. L’ultima notte di Adele Cammarata. Buone emozioni a tutti!
– Nicoletta.
Ormai quel nome lo pronunciava come una constatazione, dopo averlo a lungo invocato, implorato, urlato. Il dato di fatto era che lei, nella sua stanza, si stava preparando per la serata. La poteva sentire, dietro gli amorini che decoravano la porta. Poteva immaginarne tutti i movimenti. Lui sapeva. Tutti sapevano.
Tolse la mano dal pannello e tornò a cercare un contegno. La porta si aprì e lei rimase lì a guardarlo, senza sorprendersi. Lui era lì, c’era sempre. Ancora non si stancava.
Lei sì, si era stancata subito.
– Nicoletta.
Lei incrociò le braccia sotto la scollatura. Faceva caldo e non voleva sudare. Le gemme sul suo petto si sollevavano al ritmo della sua impazienza. La scena si ripeteva identica da anni. Era la prima parte del suo piacere. La seconda la aspettava attraversata la strada, nel palazzo di fronte.
– Nicoletta, sei…
Sì, lo sapeva: era bellissima. E piena di vita. Era innamorata ed era amata. Ma l’uomo che amava non poteva essere suo marito. Suo marito era l’impedimento, l’intralcio. Il suo errore più grande.
– Rimani.
Le scappò una risata. Poi se ne pentì. Povero Francesco Paolo. Ogni tanto lo compativa.
– Neanche per sogno – rispose seccamente.
Lui alzò lo sguardo e fu allora che lo vide veramente per la prima volta. Dietro quegli occhi troppo grandi, in un viso non gradevole, stava nascosto un leone. Non l’animale ferito per cui lei ormai non sentiva neanche più pena. No. Quello che era davanti a lei era un uomo che non conosceva. Arretrò istintivamente d’un passo.
L’estraneo invece sembrava conoscerla perfettamente. Le teneva piantati gli occhi addosso e lei non poteva distogliere lo sguardo. Forse cominciava a provarne paura. Ma no. Era sempre il suo povero marito. Con uno scatto aprì il ventaglio e cominciò a farsi aria, senza parlare. Il vestito era diventato troppo stretto, il petto quasi le scappava fuori ad ogni palpito. Si sentiva nuda, gli occhi di suo marito addosso le davano fastidio.
– Nicoletta, ascoltami bene.
Neanche la voce gli riconosceva. Lui stava per afferrarle un braccio ma si fermò, la mano a mezz’aria. La usò per allentare il nodo della cravatta.
Lei riprese a guardarlo com’era abituata a fare. Quell’uomo che aveva sposato non era capace di un solo gesto appassionato. Non le avrebbe fatto niente, come sempre. Era lei che aveva il potere di ridurlo a pezzi. Se lo ripeteva per convincersi che quel leone che aveva appena visto apparire come un lampo era solo un suo timore infondato, un residuo di senso di colpa.
– Se esci stasera, sappi che per te il portone di questa casa non si aprirà più.
La risata che ne venne fuori stavolta fu così sonora e spontanea che non poteva essere trattenuta. Rimbombò per tutta la stanza e risuonò per tutto il piano. La servitù non ci avrebbe fatto caso comunque. Richiuse il ventaglio e si guardò intorno nella stanza. Tutti gli antenati di suo marito sembravano ridere insieme a lei. Le speranze di una dinastia riposte in quell’uomo senza dignità. Senza onore. Dieci anni durava quella storia. Da subito si era accorta che, quello che voleva lui, era ben diverso da ciò che desiderava lei. E ne aveva avuto conferma, immediatamente, tra le braccia di un altro principe, con lo stesso nome, ma – accidenti – quanta differenza. “Il fuoco!” Ecco cosa avrebbe dovuto dirgli: “Francesco Paolo, il fuoco! Hai sempre avuto paura del fuoco!”
Non disse altro, invece. Avrebbe voluto tornare nella sua camera e togliersi il corsetto. Cominciava a non sopportarlo più. La pelle le bruciava. Ma non poteva tornare indietro ora.
Si voltò verso la sua immagine riflessa e vide un’ombra sparire dietro di lei. Che ascoltino pure, che importa? Si sistemò il vestito: la tortura stava per finire. Fra poco sarebbe stata dall’altra parte della strada, nella stanza di fronte. Come dentro a uno specchio.
– Hai capito? – chiese l’uomo davanti a lei, con quella voce che non gli conosceva. – Il portone sarà chiuso. Per sempre.
Tornò a guardarlo in viso, ma stavolta dovette distogliere lo sguardo. Borbottò qualcosa come “Sto facendo tardi”, raccolse i lembi del vestito e uscì dalla stanza. Scendendo le scale rischiò di cadere e dovette aggrapparsi alla balaustra. Attraversò il cortile buio, passò davanti al servo accanto al portone. Fatti pochi passi, come ogni sera, entrò nel palazzo del suo amante.
Era una di quelle serate calde di inizio estate in cui è bene chiudersi nelle case ancora fresche, invece di spalancare le finestre alla calura.
Lui era rimasto in piedi, i pugni appoggiati al tavolo. Il leone che aveva fatto la sua comparsa poco prima era in grado di sbranare chiunque gli capitasse a tiro, compreso se stesso. Lo conosceva bene. Lo aveva tenuto a bada da quando era ragazzo. Volse le spalle allo specchio e andò a chiudere la finestra. Avrebbe avuto il coraggio di fare quello che aveva detto? Davvero non voleva rivederla più? La sua Nicoletta, che non era quasi mai stata sua e che voleva essere di quell’altro, che di fatto lo era… ci avrebbe rinunciato davvero?
Sentiva i muscoli tesi, la testa pulsare. La gola, chiusa, tratteneva il pianto. Si appoggiò agli scaffali della libreria.
Michele era rimasto nei paraggi. Avrebbe voluto fare qualcosa per quel suo padrone che sembrava uscito da un poema cavalleresco e che gli poteva venire figlio: una pacca sulla spalla, un abbraccio, qualcuno da prendere a pugni. Invece si avvicinò alla porta e si schiarì la voce.
– Signor Principe, avete bisogno di me?
Non riusciva a rispondere. Una sola sillaba e sarebbe crollato. Fece cenno di sì con la testa e si raddrizzò. Inghiottì la sua rabbia e cercò di raccogliere le parole.
– Michele, io… credo che… uscirò. La Principessa… La Principessa è fuori. Quando ritornerà, stanotte o domattina, non fatela entrare. Diglielo giù, a chi è al portone.
Il servo si sorprese. Non riuscì a nascondere il proprio compiacimento.
– Dovete dire alla Principessa proprio così: “Dice il signor Principe che se ne può tornare da dov’è venuta” – e mentre pronunciava quelle parole, stentava a credere che fosse vero.
– Come ordinate, Eccellenza.
– Non deve più mettere piede qui dentro – e di nuovo si sentiva estraneo a se stesso.
– Sarà fatto – e stava per aggiungere “Se mi permettete…”, quando vide lo sguardo del Principe trasformarsi in un rimprovero:
– Non permetterò a nessuno di pronunciare il nome di mia moglie o di riferirsi a lei in qualsiasi modo. Vai a fare quello che ti ho comandato, poi sei libero. Buona notte.
Il servo si allontanò, incerto se essere felice o prevedere altre disgrazie.
Era successo. Era successo davvero. Aveva veramente dato quell’ordine. E adesso?
Si accorse di avere ancora i pugni stretti, di non riuscire a scioglierli. Non poteva rimanere lì, dentro quella stanza, dove persino i muri gli gridavano che era un fallito. Cornuto. Impotente. Tutti gli occhi puntati su di lui, l’ultimo erede della stirpe.
Si aggiustò la camicia e uscì dal palazzo così com’era, dalla porticina sul vicolo.
La notte si faceva rovente. La luna quasi piena illuminava a tratti la strada buia.
Neanche un’occhiata verso il luogo dove in quel momento si trovava lei, col suo amante. Voltò a sinistra, verso il mare. Le balate erano completamente asciutte.
Non vedeva nulla, solo i suoni della strada lo guidavano. Le gambe lo portavano da sole, verso il mare. Dalle finestre degli altri palazzi, al piano nobile, arrivavano ogni tanto una risata, il ciuciuliare delle nobildonne, lo stridere di un violino. Il pianto di un neonato, le grida di un ubriaco, una lite familiare provenivano invece dai bassi alla sua sinistra, dove viveva il popolo della Kalsa.
Cornuto. Impotente. Fallito.
Quelle parole martellavano dentro la sua testa ad ogni passo.
Le guardie lo riconobbero, si ritrovò oltre la Porta dei Greci e si fermò solo quando fu a riva. Inspirò aria di sale e scirocco.
E a quel punto, il leone dentro di lui emise un lungo e possente ruggito.
Dentro al suo corpo magro, scarno ma elegante, quel grido lo fece diventare trenta volte più grande. Trenta. Come i suoi anni.
Un dolore improvviso lo piegò, come se gli avessero strappato il cuore.
Un gatto scartò via impaurito. Il Principe sperò che non ci fosse nessuno nei paraggi. Nessuno doveva vederlo in quello stato. Si voltò a controllare la strada quando si sentì preso per mano.
– Chiancìti.
Era ‘na picciridda. Un paio di gelsomini le spuntavano da dietro l’orecchio destro. Quanti anni avrà avuto? Dieci? Dodici?
– Chiancìti, ca bbonu vi fa.
Che ci faceva in giro a quell’ora? Gli stringeva la mano come avrebbe fatto sua madre o sua sorella. Non riusciva a guardarla in faccia. Come se stessero obbedendo agli ordini della bambina, le lacrime cominciarono a scendere, calde e salate. Sembrava non dovessero finire mai. Cominciò a singhiozzare come forse aveva fatto da piccolo, ma non ne aveva memoria.
La bambina rimase lì, accanto a lui, con la mano nella sua, finché non decise di abbracciarlo.
Il Principe la lasciò fare ma, appena se ne rese conto, si staccò e cercò di dire qualcosa.
– Chi ci fu? Vi scantate? Nenti vi fazzu.
Era lei, l’adulta. Doveva avere imparato in fretta, povera creatura. Frugò nelle tasche, ma non aveva niente da darle per farla andare via.
– No, nenti, ‘ccillenza. Pure a me mi piace venirmene qua, quando sono arrabbiata.
Era una bambina e non aveva paura. Cominciò ad ascoltarla.
– Certe volte sono così arrabbiata che vorrei buttarmi a mare e scomparire. Così finisce tutto. La tristezza, la miseria, la fame. Tutto. Tanto a me non mi cerca nessuno. Nel cortile dove vivo, gridano tutti: anche se grido, nessuno ci fa caso. Perciò non parlo, mi tengo tutto qui dentro fino a sera. Ma ci sono certe notti che non posso dormire e allora vengo qui.
La bambina si fermò e si sedettero insieme sulla riva, in silenzio.
– Male vi fecero? – chiese dopo un po’.
Il Principe annuì.
– Pure a me. Ma poi passa. Anche se quando mi fanno male pare che non deve finire più. Ma è cosa di poco momento. Appena si sono levati il prìo, mi lasciano in pace.
Una zaffata di pesce andato a male li investì in quel momento, ma la bambina non ci fece caso. Prese i suoi gelsomini e li portò sulla bocca.
L’uomo provò di nuovo quel dolore lancinante, ma questa volta non era il suo. Guardò il volto della bambina, segnato da lacrime senza rumore. Non aveva avuto paura di lui, gli si era avvicinata solo per consolarlo. Nessuno dei suoi libri gli aveva insegnato le parole per consolare lei.
Rimasero ancora un po’ a guardare il mare, mentre ogni tanto arrivava un soffio più fresco. Si addormentò per prima la bambina, appoggiata al suo fianco sinistro. Le mise il braccio attorno alle spalle. Se fosse stato padre…
Resistette ancora un po’ e poi si abbandonò, stanco di tutto quel dolore. Anche i leoni riposano di notte.
Non sapeva quanto tempo avesse dormito. Riaprì gli occhi, svegliato dal grido dei gabbiani e dal chiarore dell’alba.
La bambina non c’era più. Tre pescatori si davano da fare poco distante, fra poco ci sarebbe stato troppo traffico da quelle parti.
Si mise in piedi e si diede una sistemata. Un gelsomino sgualcito gli era rimasto sulla camicia. Poteva ancora sentirne l’odore, quello del primo giorno del resto della sua vita.
Dedicato a Francesco Paolo Gravina (1800-1854)