Il sogno americano è una puttanata
Ero appena uscito dalla gattabuia. Dopo due anni ritrovavo la libertà.
“Libertà, libertà, beato chi ce l’ha” continuavo a canticchiare mentre camminavo sul marciapiede e mi avviavo verso casa. Era parecchio lontana dalla prigione, ma avevo voglia di sgranchirmi le gambe dopo tutto quel tempo chiuso come uno scimpanzé in una gabbia dello zoo.
“Libertà, libertà, beato chi ce l’ha”, la gente si voltava e mi guardava stranita. Li avevo lasciati a passare i tagliaerba nei loro giardini ed eccoli ancora lì. Qualche altro portava a pisciare fuori il cane e tornava fischiettando. Loro sì che avevano realizzato l’American Dream, e ora alle soglie dell’anzianità si godevano il riposo con le loro pance farcite di tacchini, patatine e hamburger.
“Libertà, libertà, beato chi ce l’ha” seguitavo a ripetere. Libertà, un concetto che se non viene meno difficilmente riesci comprendere appieno. Altro che American dream, avevo vissuto un incubo a stelle e strisce iniziato perché avevo voluto fare per bene il mio lavoro. Scrivevo per una testata locale e un giorno mi capitò l’occasione di fare il salto di qualità. Tramite una soffiata iniziai ad indagare su un caso di corruzione che coinvolgeva il sindaco, il capo della polizia e tanti altri colletti bianchi della città. Era una bomba e sapevo il rischio che correvo se fosse venuto fuori qualcosa prima. Avrebbero potuto uccidermi o farmi incarcerare con l’accusa di diffamazione e calunnia. Il gioco valeva la candela, potevo stravolgere il mio futuro. Potevo realizzare anche io il tanto desiderato “Sogno americano”.
In poco tempo però, lo stesso che mi aveva fatto quelle confidenze, spifferò tutto alla polizia che insabbiò il caso e mi fece rinchiudere con una miriade di accuse per le quali, con qualche sconto per buona condotta, sono riuscito ad uscire dopo settecentotrenta giorni di reclusione. A parte il borsone con la roba che mi era stata restituita all’uscita dal carcere, mi portavo dietro la consapevolezza che il sogno americano è una puttanata bella e buona per far sgobbare le persone nella speranza che qualcosa poi cambi.
Finalmente vedevo casa, era sempre la stessa. Dentro però non era più calda e accogliente per come l’avevo lasciata. Mamma se n’era andata quasi subito dopo la mia condanna. Forse l’avermi visto giudicare colpevole senza che lo fossi le era costato caro. Papà era riuscito a godersi appena il giorno della mia laurea in giornalismo e poi era volato via. Il vialetto era pieno di erbacce e sul muro, vicino la porta, c’era il cartello “For Sale” ma non si era ancora fatto avanti nessuno che fosse interessato.
“Ah dimenticavo, mi chiamo Sal Goodson e vivo nella sterminata New York. Sal sta per Salvatore. Sì! Perché mia madre impose a mio padre che, come da tradizione siciliana, avrei dovuto portare il nome di mio nonno. I miei nonni materni, giovanissimi, appena sposati, erano fuggiti dalla Sicilia dopo la seconda guerra mondiale in cerca di fortuna. Qui avevano iniziato a lavorare, affittando un piccolo buco nella Little Italy. Dopo diversi anni nacque mia mamma e, dopo essersi sposata, mi diede alla luce sul finire degli anni ‘80.”
Quando mi accusarono, tutti si allontanarono da me, ma non li giudico e nemmeno gli porto rancore. Era stato tutto montato alla perfezione per distruggermi e farmi scomparire ed essendo uno dei tanti, non ci volle poi mica molto.
Louis, il vicino di casa aprì la porta e dall’uscio urlò:
“Ehi Sal bentornato in questa merda”
Mi fece ridere, ma pensando a quei due anni dentro risposi:
“Grazie Louis, ma questa merda almeno fa più profumo di quella che ho dovuto odorare dietro le sbarre”.
“C’hai ragione, C’hai ragione” e lasciò sbattere la porta mentre rientrava.
Louis era un vecchio avvocato e aveva dato una mano a mia madre mettendola in contatto con uno studio gestito da un suo amico e dalla smisurata mole di avvocati che lavoravano alle sue dipendenze. A me era capitata una bella donna sulla quarantina, una nera avvenente. Brenda si chiamava. Difendeva me e poi se n’andava in un altro tribunale e passava dal difendere all’essere difesa. Stava chiudendo la pratica di divorzio da suo marito a cui cercava di spillare più soldi possibili. Sapeva che ero agli sgoccioli e che stavo per essere rimesso in libertà. M’aveva lasciato un bigliettino col suo numero e il suo indirizzo.
La chiamai dopo aver mangiato della carne e della pasta e aver dormito finalmente su un letto morbido e grande.
“Accetti un invito a cena per stasera?”, chiesi.
“Certo che mi va”.
Avevo scelto un locale italiano per il nostro appuntamento, raccolsi la borsa e lasciai casa. Ero entrato perché mi ero tenuto un mazzo di chiavi di riserva e non le avevo consegnate all’agenzia immobiliare. Però non potevo rimanerci lì, metti che si presentava qualcuno a vederla e mi trovavano dentro magari mentre stavo chiavando o ero intento a svuotarmi in bagno. Allora mi sono portato tutto dietro e, non appena sono entrato al ristorante, ho lasciato la roba a un cameriere dicendo di metterla da parte. Acconsentì e io andai a prendere posto al tavolo, aspettando Brenda la pantera di New York City.
Arrivò col suo solito vestitino succinto e con le cosce in bella mostra. Forse era così che fotteva sempre i giudici e le giurie ai processi (ci credo bene…). Mi baciò sulla guancia e si sedette di fronte a me. Ordinammo e cenammo. Lei aveva ottenuto l’affidamento della figlia e un mantenimento di diverse centinaia di dollari la settimana.
Ci scolammo diverse bottiglie di vino. Ne avevo bisogno. Erano secoli che non ne bevevo. Tra un sorso e l’altro iniziò a giocare col suo piedino sotto al tavolo e mi disse che se avessi voluto avrei potuto passare da casa sua per finire la serata. Accettai immediatamente. Ripresi il borsone, pagai e partimmo. Sua figlia, Katie, dormiva beata e noi andammo dritti in camera da letto e ci chiudemmo a chiave per evitare che nel cuore della notte quella dolce bambina non rimanesse scioccata nel trovarci a cavalcare.
Mi ero fottuto altre due bottiglie di vino dall’espositore del locale mentre il cassiere era intento a discutere con un cliente che aveva problemi sul conto da pagare. Ne dividemmo una, quasi mezzo litro a testa, poi chiavammo per due ore piene. Ci addormentammo sfiniti e ubriachi marci.
I raggi che penetravano dalle tapparelle mi svegliarono. Avevo un mal di testa enorme, la bocca asciutta, amara, nausea forte. Mi alzai per andare in bagno, aprii il rubinetto e cercai di bere dell’acqua per evitare che la lingua mi rimanesse appiccicata al palato. Poi tornai a letto ma i postumi erano troppo forti e quando è così c’è solo un rimedio: rimettere in corpo alcol per annullare i fastidi e farti sentire di nuovo bene. Stappai la bottiglia che era rimasta e ne bevvi due sorsi, appoggiai il capo sul cuscino e dopo qualche minuto ero di nuovo tranquillo e in pace. Il mio corpo non si ribellava più. Che bella sensazione.
Mi venne da cacare e tornai in bagno. Da dietro la tenda vedevo la città rimettersi in moto. Pensavo a cosa avessi potuto fare in quel posto che mi aveva rifiutato. Dovevo ripartire e cercavo un modo per riuscirci. Poi mi venne un’idea. Forse era meglio alzare i tacchi e andarmene dagli Stati Uniti. Avrei cercato fortuna in Europa, partendo dall’Italia.
“Ottima riflessione Sal”, pensai.
Mi vestii, ripresi la roba e in silenzio uscii dalla stanza. Brenda la pantera dormiva ancora. Era immobile, nera e sinuosa.
Chiamai un taxi e mi diressi direttamente in aeroporto. Avrei cercato il primo volo che avesse qualche posto ancora libero per un mezzo giornalista da strapazzo che si era rotto i coglioni degli States.
Il cesso mi aveva ispirato. Mi aveva dato una bella idea.
“Non è mica vero che le migliori riflessioni nascono sulla tazza di un water? Non trovate?”