Ombra di me stesso – Vincitore ex aequo Sez. Junior Premio Patti 2020
Racconto vincitore Sez. Junior Ennio Minuto ex aequo di Cristian Zito
Questo mi spaventa, detesto essere
vulnerabile. Durante il giorno ho il controllo di tutto e mi distraggo per cercare di non cadere
nel baratro della mia mente
insistentemente nelle orecchie. Potrei alzarmi per spegnerlo, ma il letto mi tiene in ostaggio.
Non riesco a dormire, il buio della stanza mi avvolge come una serpe invisibile che mi stritola
facendomi soffocare molto lentamente, quasi stesse degustando il momento in cui sarò troppo
debole per sottrarmi alla sua morsa. Alzo il braccio e mi metto a giocherellare con la mano
come se volessi afferrare l’oscurità. Chiudo gli occhi, li riapro, la serpe è sparita, ma continuo
a sentire un senso di oppressione. Da piccoli si ha paura del buio perché pensiamo che dentro
vi si nascondano dei mostri pronti a divorarci l’anima in qualsiasi momento, così supplichiamo
la mamma di accenderci la luce oppure ci rintaniamo sotto le coperte nella speranza che i mostri
non ci vedano. Poi cresciamo e così, come per magia, il buio non è più una preoccupazione…o
almeno così crediamo. Si ha sempre paura del buio in realtà. Certo, diventando grandi non
temiamo più il mostro sotto il letto o quello nascosto nell’armadio, ma qualcos’altro sì.
Spegniamo le luci, andiamo a dormire e rimaniamo soli con noi stessi, a fissare il vuoto, inerti
sul letto ad assistere a quell’inevitabile e continuo flusso di pensieri innescato dal silenzio e
dall’oscurità, senza poter fare nulla per arrestarlo. Questo mi spaventa, detesto essere
vulnerabile. Durante il giorno ho il controllo di tutto e mi distraggo per cercare di non cadere
nel baratro della mia mente. Ma di notte…sento che tutto mi sfugge, di essere in balia di me
stesso e un continuo logorio di pensieri prende il sopravvento.
È la testa che si sente sola, vengo
preso dal panico e sento di non riuscire più a respirare. Il letto diventa una gabbia di vetro, mi
isola dal mondo, non avverto più nulla, ogni sensazione svanisce. È l’una passata, sto un po’
su Instagram per distrarmi, ma dopo 10 minuti smetto: mi bruciano gli occhi e la testa mi
scongiura un po’ di riposo mortale. Mi rigiro continuamente tra le lenzuola di marmo fino alle
2:30. Niente. Alla fine trova la chiave della gabbia e riesco a liberarmi. Mi alzo e mi guardo
allo specchio: la mia faccia è più sciupata di quanto ricordassi. Indosso i vestiti ed esco per fare
una passeggiata. Cammino per le strade deserte di un mercoledì notte illuminato solo dalla
gelida luce della luna. A farmi compagnia soltanto la desolazione. La mia attenzione viene
catturata da un cartellone pubblicitario con una famiglia felice: un padre, una madre e una
bambina sorridente. Per un attimo mi sfiora l’illusione che anch’io un giorno potrei essere felice
come quella bambina, così spensierata, ingenua, totalmente noncurante di ciò che la vita le
riserverà. Poi ricordo: una giornata di pioggia, io e mamma in macchina, l’acqua cadeva
pesante sul tergicristallo, due veicoli a tutta velocità, una curva presa male, un lampo accecante.
E poi più niente. Io un mese in coma, mentre mamma non ce l’aveva fatta. Lo seppi solo dopo
che mi ero svegliato. Sono passati sette anni. Da allora ogni giorno è una camminata sospesa
nel vuoto: a volte ce la faccio, altre penso che cadere non sarebbe poi così male. Papà cominciò
ad odiarmi: mi riteneva in qualche modo responsabile della sua morte, probabilmente avrebbe
voluto che fossi morto io al posto della mamma. Di certo non era l’unico a volerlo. Ad ogni
modo ebbe l’occasione per sbattermi fuori casa qualche mese fa, quando gli dissi di essere
omosessuale. Nessun coming out strappalacrime, a dire la verità neanche mi interessava come
avrebbe reagito. Eravamo a tavola, stavamo mangiando, e mi venne da dirlo così, senza
pensarci. Fu una cosa del tipo: “Ehi pa’ sono gay, però tranquillo, continua a mangiare la tua
pasta col ragù”. Silenzio. Il viso pallido, lo stesso sguardo con cui si squadra qualcuno che ha
appena commesso un omicidio, la bocca semi-spalancata. A darmi un segno di vita solamente
un dito che mi invitava ad uscire di casa e non tornare mai più.
a loro non interessa se realmente ami qualcuno, no, gli importa solo se è del sesso
opposto
persona? Volerla baciare? Voler stare con lei più di ogni altra cosa? Forse sì, per troppe persone
è così, a loro non interessa se realmente ami qualcuno, no, gli importa solo se è del sesso
opposto. A scuola non ne avevo parlato, forse non ne sentivo il bisogno o magari non avevo
nessuno a cui dirlo. Ma le voci giravano e di certo non avevano cominciato a mancare le prese
in giro o la finta compassione sui social. Mi fa ridere pensare fino a che livelli possa arrivare
l’ipocrisia umana e come la mente delle persone proibisca loro di abbandonarsi alla follia
facendogli però fare di peggio. A sapere tutto è solo la mia migliore amica, che mi fa stare a
casa sua per il momento. Non lo dà a vedere, anzi cerca di farmi ridere e distrarre più che può,
ma so bene di essere un peso per lei e la sua famiglia. Penso però che non le darò fastidio
ancora a lungo. Continuo a passeggiare per le strade deserte, mani in tasca e testa china. D’un
tratto noto una struttura abbandonata sulla mia sinistra: finestre rotte, piante rampicanti
tutt’attorno, pezzi di mura mancanti. Mi chiedo com’è che ancora con l’abbiano demolita. I
graffiti di quelli che la gente chiama vandali le donano un tocco artistico però. Incuriosito, entro
nell’edificio accendendo la torcia del telefono. L’interno ha un odore di acqua stagnante,
pullula di piccoli insetti e qualche roditore, mentre le mura sono intrise di muffa. Con passi e
lenti e pesanti mi dirigo fino ad una lunga scalinata a chiocciola che sembra non avere fine.
Prima uno scalino, poi un altro e poi un altro ancora, fino a che mi ritrovo sul tetto dell’edificio:
enormemente vuoto. Sono le 5:00, il cielo è ancora buio, ma manca poco all’alba. L’aria si fa
più pesante e due lacrime scendono completamente scoordinate sulle mie guance fino a toccare
terra. Mi sento soffocare, l’oscurità mi avvolge, le tenebre mi osservano e quel mostro è lì,
accanto a me, col suo sorriso spento. Per molto ho cercato di resistergli, far finta di niente, ora
capisco che è inutile combatterlo, così vengo trascinato giù. Nell’oblio.
Ma poi c’è lui: un bagliore in tutto questo caos, una fiaccola in fondo ad un tunnel di
distruzione, la sola macchia colorata in uno sfondo bianco e nero. Il sorriso dolce, le labbra
sottili, gli occhi pieni di luce. Un pensiero unico, assiduo, che riesce a non farmi cadere dalla
fune nell’attesa di poterlo rivedere. La sensazione di una sua carezza, un abbraccio, un bacio,
noi due stesi sul letto a guardarci l’un l’altro. Un’immagine viva, adagiata sul mio cuore,
mescolata al mio sangue, alla mia esistenza, fino a creare un’osmosi perfetta. Una figura
concreta, eppure così astratta, così lontana. Corro senza sosta, quasi a perdi fiato, mi fa illudere
di poterlo raggiungere, sono sempre più vicino, ma proprio sul punto di
sfiorarlo…niente…ritorno al punto di partenza e mi rendo conto che tra di noi c’è un oceano, un
abisso impossibile da superare, mentre lui ride di me sulla sfonda opposta. Improvvisamente i
pensieri svaniscono, mi affaccio dal tetto dell’edificio e vedo l’alba irradiare l’orizzonte e
confondersi con la gelida luce delle stelle. In poco tempo il cielo notturno diviene una distesa
d’ambra e una leggera brezza mi soffia sul viso stanco e insonne. Poi un volo, un flebile sorriso.
Tutto oscuro, nessun ricordo, nessuna sensazione. Per un istante la felicità.