Simbiosi – 2° classificato Premio Patti 2020
“Simbiosi” di Giampiero Montanti, 2° classificato Premio Patti 2020
Le zagare del piccolo aranceto di famiglia erano il profumo
sulla pelle delle nostre mamme, se tenevamo gli occhi chiusi,
riuscivamo a riconoscerle
virilità facendo lo stesso. Le nostre famiglie come le nostre anime hanno vissuto per quelle reti e per la barca che le ha portate al largo, dove braccia forti le hanno calate in acque profonde, restando fiduciosi in attesa del ripetersi di un piccolo grande miracolo. Noi ci abbiamo sempre creduto nei miracoli. Quando i nostri padri erano in mare, di notte, e una tempesta li sorprendeva, lasciavamo il tepore dei letti, interrompendo un sonno agitato; in ginocchio, sul
freddo pavimento di ceramica colorata, stavamo lì, tutti quanti insieme, le due famiglie riunite a mani giunte, invocando il miracolo di poter riabbracciare i nostri cari. Così è sempre stato, e loro sono tornati ogni volta, riportando la luce nelle nostre case; ci hanno arruffato i capelli e portati alla giostra a fare un giro sul -calcio in culo-, a cercare di ringraziare il cielo provando ad arrivare sempre più in alto.
Le nostre mattine profumavano di pane appena sfornato e latte di mandorla. Le zagare del piccolo aranceto di famiglia erano il profumo sulla pelle delle nostre mamme, se tenevamo gli occhi chiusi, riuscivamo a riconoscerle, perché a occhi aperti, a dirla tutta, era quasi impossibile distinguerle. Anche noi facevamo di tutto per apparire
simili, stesso taglio di capelli, stessi vestiti, la corporatura identica, agile, scattante. Sebbene gli occhi siano di diverso colore, due differenti sfumature di castano e oro, a scuola, per la strada, a volte anche a casa ci hanno spesso confuso. Durante lo sviluppo uno di noi due ha raggiunto l’altro in poco tempo. Alle ragazze nuove, quelle che non conoscevano i nostri cognomi, dicevamo che eravamo gemelli e nessuna faceva fatica a crederlo. In prima media abbiamo avuto una fidanzata in due, anche se lei era convinta di stare con uno soltanto di noi. Ci siamo
reciprocamente contati i peli del pube e delle ascelle man mano che spuntavano. Giocato tante volte in giardino “a chi piscia più lontano” e misurato la lunghezza delle nostre nascenti virilità per concludere che anche in quello eravamo uguali, con buona pace del nostro orgoglio. Abbiamo giocato interminabili partite di pallone, sempre dalla stessa parte, mai avversari, sempre compagni. Ci siamo abbracciati tante volte; in momenti di gioia e di dolore, pelle contro pelle abbiamo confuso i nostri odori, ci siamo scambiati i pidocchi e il coraggio per andare avanti nonostante tutto.
Ci sentivamo
dei leoni a cavallo di quel capolavoro di metallo lucente
che fosse il mare a richiamarci, a fermare la nostra corsa, prima o dopo, per poi tornare dove eravamo nati, alle nostre preziose reti e ai pesci che dovevano riempirle. Agli esami di maturità ci hanno dato lo stesso voto, è stata una bella fatica ma l’abbiamo affrontata insieme. In premio abbiamo ricevuto la moto dei nostri sogni, la agognavamo da tempo, ma nelle nostre case non c’erano tanti soldi da dedicare al superfluo; per muoversi nel mare non servono le ruote, anche se sono soltanto due. Non ci importava che fosse una moto sola, abbiamo diviso tutto nella nostra vita, potevamo anche dividere un sogno realizzato. Ci sentivamo dei leoni a cavallo di quel capolavoro di metallo lucente, era solo un grosso scooter ma eravamo pronti per un circuito da MotoGP. Ci dividevamo la guida, a turno, la sensazione di libertà che ci procurava, l’orgoglio di mostrare all’altro la propria abilità. La t-shirt stampata
incollata al petto, il vento sulla faccia che filtrava dalla visiera del casco, il paesaggio che mutava con la velocità del nostro motore. Chi di noi stava dietro, gustava il privilegio di vivere una sorpresa continua, lasciando all’altro la scelta della strada da prendere. I caschi che si scontravano se non ci muovevamo all’unisono, le cosce a contatto come
in una presa, le braccia aperte come in volo, la vibrazione delle gambe che seguono docili la strada che curva. E poi arrivati alla meta, la musica a palla dalla radio poggiata sul prato e noi stesi a guardare le nuvole che venivano dal mare, a sognare nuovi viaggi con la nostra moto vicina.
Ci siamo innamorati di due sorelle, non poteva essere diverso. Uscivamo a piedi, in quattro, tenendoci tutti per mano, la moto non poteva separarci. La nostra verginità l’abbiamo persa l’uno di fianco all’altro, nella tenda da campeggio montata alla fine dell’aranceto. Pochi sguardi d’intesa sono bastati a darci il coraggio, avevamo già
provato più volte, insieme, come indossare per bene il “cappuccio”, la rete che avrebbe protetto tutti noi da gravidanze premature. Adesso tutto tornava, il sesso fatto a parole diventava realtà, la nostra realtà. Le ragazze erano più impaurite che stupite dalla nostra intimità e, in fondo, da sorelle, non potevano che comprenderci. È andato tutto liscio, abbiamo goduto quasi all’unisono in un momento di grande magia. Abbiamo festeggiato a modo nostro, a cavallo della moto, lanciandola veloce sul lungomare, come storditi da questa nuova felicità, questo limite appena superato, l’ingresso nel mondo degli Uomini appena varcato. Gridavamo a squarciagola la nostra euforia, cantando canzonette prive di senso. Impennare con la bici non è mai stato il nostro forte, figurarsi con le moto. Ma ci abbiamo provato lo stesso, se la moto è simbolo di virilità deve stare all’insù come un cazzo eccitato.
Andrea non si muove, il suo corpo è riverso sull’asfalto con la
faccia a terra, vedo solo i suoi capelli
faccia a terra, vedo solo i suoi capelli. Il casco è volato via, non era allacciato. La gamba destra disegna un arco innaturale, il piede è storto, la scarpa poco distante. Non vedo sangue ma c’è tanto silenzio, troppo silenzio intorno a lui, neanche una parola, neanche un lamento. Provo a chiamarlo, con tutto il fiato che mi resta, quel fiato che si sta
accorciando, parola dopo parola, quel fiato che ora mi manca e mi costringe a guardare il mio corpo. Io sono ancora qui, dove il mio volo mi ha fatto atterrare. La maglietta non è più bianca, sulla N di NYC adesso c’è uno squarcio mal fatto, la mela stampata era già rossa ma adesso ha tanto rosso, troppo rosso intorno, ci deve essere un altro buco
da qualche altra parte, c’è qualcosa che preme dentro di me, qualcosa di metallico che mi ha trapassato e spinge, e lacera, e brucia. Il dolore è così forte, non riesco a sentire altro che questo. Forse è meglio riposare
un po’, devo chiudere gli occhi… Che casino che ho fatto. Pietro dorme. Lo tengono sedato più che possono, il dolore che prova è insopportabile, non può farcela a resistere. Il suo fegato è spappolato, i reni compromessi e il cuore ha subito tre arresti in due giorni. Il suo cranio è intatto, il casco è rimasto al suo posto e lo ha protetto nella rovinosa caduta, ma il suo addome ha centrato con violenza il manubrio di una bicicletta che lo ha trafitto come fosse uno spiedo. Ha perso molto sangue ma per fortuna i soccorsi sono arrivati in tempo. Ci hanno messo del tempo a liberarlo ma alla fine ci sono riusciti e lui è ancora vivo. Io non riesco ad aprire gli occhi, ho il bacino
spezzato, la gamba destra maciullata, fratturata in almeno 4 punti. Non ci provano nemmeno a sistemarmi la gamba, la tengono dritta, dovrebbero operarla ma non è questo il pensiero più urgente dei medici. La botta ricevuta alla testa è stata micidiale.
L’urto sull’asfalto ha creato danni irreparabili. Il mio cervello è compresso da un’enorme, imponente ematoma che ha già bloccato gran parte delle mie funzioni vitali. Non vedo, non parlo, non posso più muovere alcun muscolo, sono
completamente paralizzato. Non sento nemmeno dolore. Mi hanno intubato, collegato a decine di cavi che mi tengono aggrappato ad una vita che in parte mi ha già abbandonato. Posso solo sentirli, ma ogni minuto che passa la notte avanza anche in pieno giorno e il mio mondo si restringe sempre più. Fino quasi a scomparire. Siamo stati un bel sogno, abbiamo vissuto gioendo, crescere insieme è stata la nostra forza, ci ha permesso di affrontare il mondo e apparire, anzi essere, sempre vincenti. I nostri sorrisi li amavano in tanti. Abbiamo ricevuto amore e in parte siamo riusciti a restituirlo. Nessuno di noi avrebbe voluto che questo finisse, nessuno di noi avrebbe voluto interrompere i nostri passi nel mondo, eppure a volte la gioia non basta a se stessa, forse c’è un’invidia sempre latente, nascosta sul fondo, pronta ad emergere quando si è tanto felici. Di fatto la nostra simbiosi si stava esaurendo. Pietro e Andrea morivano, anche stavolta insieme, però. Sono passati tre anni dal nostro incidente e questo è il primo giorno di pesca per noi. Il sole è gagliardo nel cielo, ferisce i nostri occhi con tutta la sua luce per poi scusarsi e correre a nascondersi dietro le bianche sottane di qualche nuvola sparsa. Le reti sono pronte, un
ammasso enorme, il nylon scintilla sotto i raggi del sole, l’argano è pronto per lasciarle andare e toccherà a noi dare il segnale convenuto. Le nostre mani tremano per l’emozione, il nostro cuore è in tumulto. Le ferite sono un ricordo lontano, ma le cicatrici le accarezziamo ogni giorno. Avevamo un unico cuore, un solo fegato, una coppia di reni e
abbiamo dovuto convincerli, dobbiamo costringerli ogni giorno a vivere insieme a tutto quello che resta di noi. Siamo fusi in unico corpo, siamo un essere solo. La nostra simbiosi è arrivata al suo culmine. Siamo Pietro e Andrea, e siamo ancora insieme, per sempre.