Imbrunire – 3° classificato Premio Patti 2020
Racconto terzo classificato al Premio Patti 2020, Imbrunire di Maria Sole Cusumano.
A volte stento a credere ad alcune cose che mi dice, percepisco il confine fra realtà e invenzione farsi
sempre più sottile fino a svanire e mi sembra di ascoltare nient’altro che una bella favola
spiaggia al tramonto, con un libro in mano e un asciugamano sotto il braccio. Anche lei sa dove
trovarmi, si volta verso la mia direzione e allunga la testa per scorgere il mio profilo attraverso le
tende. La raggiungo in spiaggia e quando ci sediamo uno accanto all’altra c’è poco spazio per i
convenevoli, mi mostra la sua ultima lettura e io la mia più recente stesura, poi si mette a leggere e
per un po’ non diciamo altro. Solo se accendo una sigaretta alza gli occhi dalle pagine per rimbeccarmi
come farebbe mia madre.
Aspettiamo che il sole scivoli dietro le montagne, mentre dal mare si leva una piacevole frescura e la
sabbia si raffredda sotto i nostri piedi, poi iniziano le chiacchiere. Ha sempre un sacco di storie da
raccontarmi, a volte mi dà la sensazione che le accadano le più straordinarie avventure, a lei soltanto.
E quando mi confida i guai in cui si è cacciata mi mordo le labbra pur di non scoppiare a ridere. Dico,
è mai possibile? A me sembra che tu voglia per forza infilarti in situazioni assurde.
Lei ride, scuote la testa e continua.
A volte stento a credere ad alcune cose che mi dice, percepisco il confine fra realtà e invenzione farsi
sempre più sottile fino a svanire e mi sembra di ascoltare nient’altro che una bella favola.
Ho l’impressione, nel momento stesso in cui apre bocca, che si nutra di ciò che mi racconta, che
quelle bugie in qualche modo la tengono in vita. Inoltre, ritengo che parli a quel modo solo con me.
Non so quando esattamente, ma pare che sia stato fatto fra noi questo tacito accordo: lei inventa,
arricchisce la sua quotidianità di particolari incredibili ed io ascolto, faccio domande, le credo.
Se è ciò di cui ha bisogno, sono disposto ad ascoltarla per ore.
La cosa buffa è che sembra mi voglia talmente tanto bene da non volermi dir nulla che la riguardi per
davvero. Secondo lei affezionarsi a qualcuno comporta troppi fastidi, finisce sempre che te ne
preoccupi, ti fai carico delle sue sofferenze, e qualora all’improvviso sparisse ti lascerebbe uno
squarcio insanabile nel petto.
«È per questo che andiamo d’accordo» mi ha detto una sera, poco prima di risalire in paese «A te non
piacciono le persone e a me non piace farci amicizia».
Le nostre conversazioni durano quanto il tramonto. Per questo l’estate è diventata la mia stagione
preferita. Le giornate si dilatano e sembra che il sole se ne approfitti per imporci la sua presenza fino
all’ultima goccia di luce. Sono bei tramonti quelli di giugno. La notte si fa attendere ogni giorno un
po’ di più e noi parliamo mentre il mutare dei colori nel cielo ci indica il tempo trascorso insieme.
Un pomeriggio mi confida qualcosa che non trovo affatto inverosimile. Dice di avere un taccuino su
cui segna le decisioni che non ha voglia di prendere – ma se potessi passare una penna sulla sua bocca,
correggerei voglia con coraggio –, non lo rilegge mai, lo tiene sotto il materasso e lo tira fuori ogni
sei mesi per farsi un’idea di quante decisioni ha rimandato. Le chiedo quante siano, dato che è quasi
metà anno.
«Non lo so» dice in una stretta di spalle «Ne sarà rimasta una».
E non riesci proprio a prenderla, questa decisione?
Lei cambia argomento, improvvisamente non è così importante e le sue guance ed il cielo si tingono
per un attimo dello stesso, tenue, color pesca.
Passiamo le settimane successive a parlare di altro. Insiste col voler leggere qualcosa scritto da me
ma io non ho niente di pronto, possibili trame affollano la mia mente come ragnatele e passo il tempo
a spazzarle via. Non butto giù neanche una riga, questo però non glielo dico, tergiverso e cerco di
convincerla a parlarmi di lei, dato che le riesce così bene. Ma la nostra conversazione si posa su tutto
fuorché noi e finisce per approdare alla spiaggia, questo piccolo borgo sul mare dove ci siamo
incontrati.
«Sono ventitré anni che passo l’estate qui» e lo dice con una strana malinconia, come se si sentisse
prigioniera e figlia di questo luogo.
Per me è la prima volta, invece, le dico.
«La prima e l’ultima» aggiunge lei ridendo. In realtà a me piace il mare, mi piace che la battigia sia
disordinata, gli ombrelloni distribuiti in modo impreciso e la presenza dei bagnanti incostante.
«Quel che ti rende la spiaggia tanto piacevole a me la rende insopportabile» con il dito segue la linea
retta del mare fino al punto in cui incontra la costa «La gente ci viene col contagocce, sempre le stesse
facce. Uno si aspetta che dopo il tramonto cambi tutto, che la notte porti una qualche metamorfosi,
ma il giorno dopo il sole illumina esattamente quel che ci si era lasciati alle spalle la sera prima»
sbuffa «Avvilente, ti pare?».
Non ho avuto il tempo a sufficienza per immettermi in questa routine, rispondo.
Questa è la prima e l’ultima volta in cui parliamo del nostro posto. Mentre lasciamo la spiaggia le
chiedo se fra le decisioni da prendere segnate nel suo prezioso taccuino ci sia anche una nuova meta,
per l’estate o qualcos’altro. Non mi risponde, solleva una mano, monta sulla bicicletta, il libro e
l’asciugamano sporco di sabbia nel cestello.
Da quel giorno si è fatta silenziosa. Sembra che l’immobilità dell’estate l’abbia contagiata e privata
anche della voglia d’inventare, di parlare senza sosta. Almeno, vorrei che fosse l’estate, ma temo che
sia qualcosa di più profondo. La osservo in silenzio mentre finge di leggere e non faccio in tempo a
distogliere lo sguardo che posa i suoi occhi grigi su di me «Che c’è?».
Lo chiedo a te, rispondo.
«Hai notato che le giornate cominciano ad accorciarsi?».
In realtà, no, penso, i ritmi della costa sono rimasti invariati, dalla mia finestra continuo a vedere il
sole torreggiare sul mare e infilarsi pigramente dietro le montagne, non senza qualche resistenza.
Se è come dici, replico allora, la notte si sarà mangiata appena qualche secondo.
«Me ne accorgo perché il tramonto arriva prima» prosegue, come se non avessi detto nulla «Non
guardi l’orario quando ci vediamo?».
La mia risposta è del tutto superflua, la ignora e riprende fissandosi le caviglie immerse nella sabbia
«Sembra che anche l’estate mi voglia mettere fretta».
Solo in quel momento mi ritorna in mente il taccuino e quella domanda, sciocca, lasciata fra le
conchiglie senza risposta. Penso che se volesse dirmi di più l’avrebbe già fatto, allora parlo io. Le
dico in tutta onestà che la trovo intelligente quanto annoiata, che quella spiaggia è un posto troppo
lento e monotono per lei, che al massimo va bene per uno come me. Le dico che aspettare la sera con
uno scrittore dalla carriera in declino non la porterà da nessuna parte e che l’energia che mette nei
suoi racconti sarebbe senz’altro meglio spesa altrove.
La sua risposta mi spiazza «Lo so, lo penso sempre. Sappi che ogni tramonto che trascorro su questa
costa, con le caviglie nella sabbia e gli occhi sul mare, mi allontana dal segnare l’ultima spunta, quella
di cui ti avevo parlato».
Senza pensarci troppo, e complice forse un leggero risentimento per l’ovvietà con la quale aveva
replicato alle mie parole, le dico che se avesse anche solo una buona ragione per andarsene dovrebbe
farlo.
«Ci penserò» risponde alzandosi in piedi. Si scrolla di dosso un po’ di sabbia e, prima di andare, mi
stringe la mano come se ci fossimo appena incontrati. Si allontana a piedi questa volta e io la osservo
finchè non sparisce fra le ombre crepuscolari.
Quella notte non riesco a chiudere occhio e finisco per tornare davanti alla finestra a guardare la
spiaggia. Per un attimo ho quasi l’impressione di vederla seduta al solito posto, con gli occhi rivolti
al libro ma la testa altrove, persa in una moltitudine di possibilità inafferrabili. Immagino che le
piaccia quella dimensione d’indecisione che offre il tramonto, quando è ancora giorno ma non del
tutto e, per un attimo, prima che la luna compaia all’orizzonte opaca come il fanale di un auto nella
nebbia, lei trattiene il fiato sperando che con la notte possa accadere qualsiasi cosa, anche a lei.
Il giorno dopo attendo il tramonto con una certa ansia. Mi sento un po’ in colpa per quello che ho
detto, per come l’ho detto; ma, al contrario di quanto sostenuto da lei, il tempo non passa affatto più
rapidamente, sono ingabbiato nella giornata più lunga e calda d’estate.
Credo, adesso, che il tramonto sia il tempo del forse, delle possibilità incalcolabili, degli imprevisti,
il tempo di mettere via il taccuino, mentre la notte è fatta per l’azione, per la metamorfosi
delle strade, trovare nuovi libri da leggere, iniziarli e finirli che il sole è ancora alto.
Ritorno in spiaggia al tramonto con una certa inquietudine, abbastanza sicuro di non trovarla. Non so
perché, ma all’improvviso mi comincia a sembrare la cosa più ovvia e penso d’aver solo voluto
ritardare l’inevitabile ciondolando per tutto il giorno.
Ed il mio sospetto si tramuta in certezza quando vedo il posto occupato dal suo asciugamano vuoto,
il palo della luce a cui appoggiava la bicicletta sgombro. Incredibile che mi abbia davvero ascoltato
per una volta. Arranco attraverso la sabbia rovente e mi spingo fino a riva, conficcato a pochi passi
dal mare c’è il suo taccuino. È riuscita a far fare alla notte quella metamorfosi, a stravolgere il giorno.
Mi rigiro il taccuino fra le mani, passo i polpastrelli lungo la ruvida copertina nera e sfioro le pagine
sporche di rena, lo apro in preda ad un’irrefrenabile curiosità e leggo la riga a cui è stata posta la
spunta. Sorrido non senza una certa malinconia. È acquattata dentro di me ma, in nome del bene che
ho imparato a volere alla mia amica, dovrò tenerla a bada ancora un altro po’.
Credo, adesso, che il tramonto sia il tempo del forse, delle possibilità incalcolabili, degli imprevisti,
il tempo di mettere via il taccuino, mentre la notte è fatta per l’azione, per la metamorfosi.
Che sia una buona giornata quella che verrà, lo spero per lei, dentro di me è sceso il buio.