L’alba – 4° classificato Premio Patti 2020
Quarto classificato al “Premio Patti 2020” per racconti brevi di Giovanni Pecoraro.
L’aspettava. Da molto tempo.
Non l’aveva mai vista bene, sempre assonnato, sempre in ritardo, di corsa.
Ne aveva sentito parlare da tanti; poeti, navigatori, santi; ma anche studenti, battone, esteti da
osteria. Restava per lui un territorio inesplorato; eppure di occasioni ne aveva avute: le guardie, da
militare, le gite in montagna, o al mare, sempre rimproverato da tutti “alzati, è tardi, dai, aspettiamo
solo te, guarda che ti perdi le ore più belle “, e così via. Ma era riuscito sempre a svicolare, a
rimandare. Forse aveva paura. E di cosa? Non lo sapeva esattamente, ma questa cosa, che arrivava
la luce a imporgli il tempo delle attività lo infastidiva molto. Non che volesse non far nulla,
tutt’altro; semplicemente voleva scegliere lui, non piegarsi al mondo esterno. Nella notte, riusciva a
gestire meglio le cose, intorno a lui non si muoveva nulla, tutto dipendeva dalle sue scelte: dormo?
leggo? mangio? Era lui a decidere. Il giorno no, era popolato da persone fastidiose, invadenti,
sempre a chiedere qualcosa, a pretendere pure. Ma una volta, parlando con un vecchio contadino, lo
aveva colpito una frase secca, breve: “a matinata fà a iurnata”. Ci aveva pensato tutto il pomeriggio,
cercando di capire perché quelle parole lo avessero tanto turbato; e poi tutta la sera, prima di
decidersi ad andare a dormire.
Nessuna illusione, la sua vita era quella. Nessun’alba lo avrebbe salvato, tutt’al più avrebbe
scoperto qualcosa che non conosceva, nulla di più
quella canzone, cantata da una donna dalla voce struggente, e ci era rimasto male. O forse non era
neanche amore; se non era tornato voleva dire che proprio amore non era, forse sesso, forse gioco,
forse passatempo, forse, forse . .
Aveva deciso di svegliarsi in tempo per vederla, da solo, con calma; almeno una volta, per saperne
parlare, per non sentirsi in colpa con sé stesso; ne aveva perse di occasioni, e adesso, ai
quarant’anni, aveva deciso che le cose da fare erano ancora tante, non c’era tempo da perdere.
Aveva immaginato quell’alba come l’inizio di una vita diversa, che magari gli avrebbe portato tutto
quello che cercava; poi si era accorto che era una sciocchezza.
Nessuna illusione, la sua vita era quella. Nessun’alba lo avrebbe salvato, tutt’al più avrebbe
scoperto qualcosa che non conosceva, nulla di più. Mise la sveglia alle quattro e mezza, poggiò il
libro sul comodino, e cercò di dormire. Aveva immaginato i tempi, la colazione, il tragitto fino a
quell’altura da cui si dominava il golfo; aveva accertato l’ora esatta del sorgere del sole, e va bene;
ma a lui non interessava solo quello, anzi. In fondo quello sarebbe stato il momento preciso in cui
tutto finiva, iniziava il giorno, consueto, prevedibile, ripetitivo. Lui invece voleva gustare tutti i
passaggi dal buio della notte fino al pallino rosso, laggiù, oltre il mare. Questo gli avevano detto:
assapora i momenti, uno per uno, singoli e irripetibili. E lui questo cercava.
Non fu un sonno tranquillo, anzi.
Gli si erano presentati, in successione priva di qualsiasi criterio, personaggi del presente e del
passato, alcuni dimenticati da tempo immemore, appunto. Ma tutti lo guardavano in silenzio,
immobili, messi di tre quarti, col sopracciglio aggrottato e l’aria di rimprovero. E perché, ma che
volevano, cosa gli contestavano? E chi erano, cosa avevano in comune? Niente, niente che li
accomunasse; erano il maestro delle elementari, il portiere di casa della zia Mariella, la zia Mariella
stessa, il fruttivendolo all’angolo, la cassiera del bar, quella carina, e tanti altri, che manco sapeva
chi fossero. Ma tutti volti noti.
Si svegliò nel mezzo di questi interrogativi, agitato e confuso, e fu lieto di capire che era solo un
sogno. Ma ormai mancava poco alle quattro e mezza, tanto valeva alzarsi e prendersela comoda,
tanto lo sapeva che non si sarebbe riaddormentato. Rimandò la colazione a dopo; aveva sentito che
il digiuno acuisce i sensi, ma forse anche questa era una sciocchezza.
E uscì. Ancora notte. Nessun segno del sole, neanche un chiarore lontano. Sapeva che il cielo
sarebbe stato limpido, il previsto vento di tramontana c’era davvero, le stelle brillavano, niente luna,
insomma il meglio per sentire la notte e attendere il tempo.
Blackbird singing in the dead of night, cantavano quei quattro, e lui lo sentì, il merlo; lo immaginò,
col becco giallo, tutto nero, su chissà quale albero intorno a lui. Non poteva vederlo, ma sapere che
fosse lì come tutte le notti gli diede conforto, una gradevole sensazione di sicurezza che non si
aspettava.
L’altura era proprio dietro casa sua, il sentiero libero e ben conosciuto. Si guardò intorno. Perché
era preoccupato? Paura di uno dei tanti cani randagi che giravano, figli di chissà quale madre a suo
tempo abbandonata da qualche umano poco umano? No, no, li conosceva, più o meno, e loro
conoscevano lui. Qualche tozzo di pane secco, qualche sguardo, qualche scodinzolata, no, non era
questo il problema, e allora? Cominciò a salire per il sentiero, si era portato una torcia, ma la usava
solo a tratti, per guardare qualche passo avanti a lui; l’altura era brulla, aperta, le pietre chiare
affioravano tra l’erba bassa, ora qualcosa si vedeva anche senza torcia. Si fermò nel punto più in
alto, e si sedette per terra, cercando una posizione yoga che aveva visto, e che immaginava molto
più comoda. Ripiegò sulla vecchia seduta per terra tradizionale, senza schemi prefissati.
Guardava, lì dove cominciava a rischiarare, una luce senza colore, grigia e leggerissima. E attese.
Lentamente, ma inesorabilmente, dava colore al
cielo, lì, proprio sopra il mare, che restava grigio e scuro, molto scuro
E il sole? Che aspetta? Che fa, perde tempo? Ma se è lui, che lo fa il tempo, come fa a perdere
tempo? E infatti il sole non ne perdeva, di tempo. Lentamente, ma inesorabilmente, dava colore al
cielo, lì, proprio sopra il mare, che restava grigio e scuro, molto scuro. Il cielo no, ora era rosa, ma
anche azzurro, e i colori diventavano sempre più intensi e luminosi. Accidenti, il tempo passava e
lui non riusciva a fermarlo, a fissare negli occhi un preciso momento, uno qualsiasi; no, tutto
cambiava continuamente, ogni istante era diverso da quello prima, e non c’era modo di bloccarlo.
Aveva fatto bene a non portare con sé la macchina fotografica cui tanto teneva, e neanche quel
telefono nuovo nuovo che prometteva immagini meravigliose, più vere del vero. Si sarebbe
distratto, avrebbe cercato lo scatto giusto, l’esposizione corretta, e si sarebbe perso il sottile piacere
del mutare in continuo di tutto.
Piacere, sì, perché adesso aveva capito che la cosa era tutta lì, nella impercettibilità puntuale del
cambiamento, che nessuno poteva fermare; fermarlo significava ucciderlo, sottrargli la sua essenza.
Si perse a ricordare che la luce del sole ci mette qualche minuto ad arrivare, forse otto, e quindi ora
il sole era lì, davanti a lui, che ancora non lo vedeva, non lo poteva vedere. Ma sapeva che c’era, e
questo lo spiazzava, nettamente. Questa cosa della luce che partiva e ci metteva otto minuti ad
arrivare la capiva facilmente, ma non gli piaceva. Gli levava la fiducia che aveva sempre nutrito in
quello che vedeva, che toccava. E se adesso non vedeva un sole che c’era, e poi avrebbe visto un
sole che era già un po’ più in là, come poteva continuare a far finta di niente, a credere di potersi
fidare delle mani, degli occhi, di tutte le cose, di tutte le persone che giravano intorno a lui?
C’erano, c’erano davvero? O erano solo come lui le vedeva, se le era immaginate, senza mai poter
accertare davvero cosa, e chi, fossero?
Intanto il cielo era rosso, e anche blu, mentre il mare restava ancora scuro. Ma adesso riusciva a
percepire qualcosa, forse la scia di un lontano peschereccio che rientrava dalla notte; sì, e ora si
vedeva anche la sagoma del peschereccio, in controluce; il rumore no, per ora solo il canto di
uccellini, piccoli e appena risvegliati dal chiarore.
Attese ancora; prima o poi sarebbe venuto fuori quel maledetto pallino luminoso.
Ma perché maledetto? Sì, maledetto, perché lui non aveva pazienza, non voleva aspettare, aveva
fretta, voleva andare a fare, a iniziare qualcosa, e poi finirla, e poi ricominciare; e invece adesso
doveva stare lì, fermo, a non far null’altro che aspettare.
Il sole uscì, bello, luminoso, caldo, violento.
E lui capì: era benedetto, gli aveva dato il tempo di esistere nel nulla che era già tutto, gli aveva
regalato un dono raro: il tempo senza tempo.
Ridiscese.
E tornò, tutte le mattine.
Anzi, tutte le notti.