Il fiume – III – Tutti i miei Token
Verso la fine di giugno le presenze al fiume aumentarono notevolmente. Nei fine settimana tutti i fazzoletti di sabbia erano oramai coperti da asciugamani e gli ultimi arrivati dovevano cercare una sistemazione alla meno peggio tra i sassi.
I ragazzi più giovani, presenti quasi tutti i giorni da alcune settimane, avevano dovuto cedere la sabbia ai ragazzi più grandi, arrivati al fiume giusto da qualche giorno. Questo era avvenuto in modo naturale, una legge antica come le rocce dall’altro lato del fiume.
Solo Gigi, uno dei tredicenni, aveva avuto qualcosa da dire, così, giusto per dirla, che lui zitto non ci stava a prescindere. La sua sfacciataggine gli aveva permesso di conoscere un’espressione che presto avrebbe riutilizzato con i coetanei: se parli ancora ti apro il culo, coglione. Un sorriso tra le guance paffute e una corsa sgraziata tra i sassi. I ragazzini, del resto, fermi ci stavano assai poco e per loro un sasso dove appoggiare le natiche ogni tanto era più che sufficiente.
Il cane del fiume era mancato giusto tre volte in tutto il mese di giugno: due per maltempo e una non si sapeva il perché. Quel giorno l’unico ad accorgersene era stato Mimmo, che pure aveva buttato lì un paio di previsioni funeste per il povero cane, del tipo sventrato da un cinghiale o spezzato nel mezzo da un camion Iveco. Tutti avevano riso e chi non aveva trovato di che ridere si era finto interessato al tuffo di un ragazzino o al volteggio di un uccello nel cielo.
Iniziarono ad arrivare i forestieri, quelli che abitavano in città e ivi cercavano frescura a buon mercato. Tutta gente conosciuta.
I pochi volti nuovi finivano in breve tempo nelle maglie della curiosità di qualcuno. Anche questa era una legge antica come le rocce che scendevano a strati paralleli dall’altro lato del fiume. Eppure dello sconosciuto e del ragazzo biondo ancora nessuno aveva saputo niente. Manco se fossero padre e figlio, a ben vedere, era cosa certa.
Gigi e Luca erano nella stessa classe fin da quando i ricordi non erano che immagini estemporanee di situazioni statiche e confuse. Il primo giorno di scuola Gigi non lo ricordava, Luca invece conservava uno scatto del sorriso della maestra e dei suoi denti da cavallo. Una spilla verde ricordava anche, ma non sul petto di chi fosse appuntata. Gigi ricordava invece un pomeriggio di settembre in cui stavano giocando con la palla e Luca per non interrompere il gioco aveva finito per farsela nei pantaloni. L’istantanea di Gigi era una macchia umida su pantalone di cotone blu e un pallone di tela dello stesso colore con esagoni neri. Luca aveva rimosso l’evento o comunque preferiva andare oltre. Gigi e Luca erano estremamente diversi per struttura fisica, carattere e quant’altro possa descrivere una persona. E nonostante ciò, o forse a motivo di questo, avevano finito per stringere un’amicizia simbiotica, fraterna. Dov’è Gigi? Dov’è Luca? era la loro prima frase giunti in qualsiasi posto.
Qualcuno li chiamava ying e yang e tutto sommato, sebbene non fosse chiaro chi dei due dovesse prendersi la parte oscura, non era un paragone errato. Gigi era grosso, estroverso, sfacciato. Aveva neri capelli arruffati e la carnagione chiara, un occhio azzurro e l’altro tendente al verde. Come David Bowie gli aveva fatto notare qualcuno. E chi cazz’è, aveva risposto lui.
Rideva forte, si lanciava in discorsi di cui non sapeva nemmeno l’argomento e finiva spesso per fare magre figure. Ma non conosceva vergogna. Gigi era corpulento, di quel grasso che faceva ancora bambino e col tempo si sarebbe trasformato in una massa imponente. A Luca, invece, si potevano contare le costole. Luca non parlava molto. Talvolta si preparava mentalmente discorsi e frasi che non trovavano quasi mai la strada per uscire dalla testa. Se ne rammaricava assai e finiva per aggredirsi verbalmente mentre pedalava rabbioso verso casa.
Aveva una mente sveglia e anche troppo portata all’elucubrazione, a scuola andava bene ma non come avrebbe potuto. La professoressa diceva alla madre che era un pochino troppo legato quel ragazzo, che si doveva svegliare un attimo che poi alle superiori il mondo fa un discreto upgrade e quei quattro trucchi non bastano più. Lei faceva spallucce. Ha tredici anni, diceva, si farà. Suo padre era peggio di lui a quell’età, poi si è fatto anche troppo sveglio. Lei, però, suo padre lo aveva conosciuto a ventuno. Ma glielo avevano detto. Vecchi compagni di bisboccia, i database più sicuri per quanto riguarda i difetti. Insomma, questo solo accomunava Gigi e Luca: i ragazzi si sarebbero fatti, prima o poi.
L’ultima domenica di giugno, mentre il sole iniziava a corteggiare le rocce dietro le quali si sarebbe presto nascosto, Gigi e Luca sedevano vicini in riva al fiume e guardavano il ragazzino biondo giocare con il cane del fiume su una roccia dall’altra parte del corso d’acqua. La schiena appoggiata alla roccia che scendeva verticale sull’acqua, un bastone che finalmente il cane aveva imparato a riportare al mittente.
Un pubblico attento avrebbe riconsiderato dieci anni di giudizi indecorosi sull’animale. Ne avrebbe dedotto che con un po’ d’impegno persino quella bestia nera con gli occhi minuscoli avrebbe potuto essere educata. Ma dei progressi del cane del fiume interessava a nessuno. Il cane del fiume sarebbe dovuto rimanere un cane di merda, così come lo scemo del paese sarebbe rimasto lo scemo sebbene avesse imparato a risolvere equazioni di secondo grado. Le persone hanno bisogno di punti fermi. Altrimenti le formule chimiche si sbilanciano e occorre trovare nuovi reagenti per equilibrare la formula. Una fatica immane.
Gli amici di Gigi e Andrea erano già rincasati. Assieme a loro era rimasta Giulia, l’unica dei tre con i piedi nell’acqua e l’asciugamano a fasciare il corpo, di qualche mese più piccola e di una grazia decisamente più grande. Quell’estate aveva iniziato a stare appresso a loro. Solamente l’anno precedente portava la parte superiore del costume giusto per un vezzo da signorina, mentre ora il top aveva finalmente acquisito la funzione per cui era stato cucito in qualche avamposto capitalista dell’Asia più profonda. Con il seno si erano alzate anche le natiche e gli zigomi, mentre il naso aveva preso una curva delicata che di profilo pareva una variazione allo spartito verticale dei lunghi capelli biondi. Gigi la considerava né più né meno un’inutile zavorra. Luca, nel suo lettino prima di prendere sonno, immaginava di sposarla nella chiesa del paese. Dopo di che si trovava un’erezione dentro il pigiama a righe bianche e blu e talvolta pensava di essere posseduto dal demonio perché passare dal sacro vincolo del matrimonio a un’imbarazzante erezione gli pareva cosa un tantino fuori dalla grazia del Signore. Diavolo o no, giunti a quel punto non c’era verso di dormire. Allora si smanettava, poi si faceva un paio di volte il segno della croce, chiedeva l’intercessione della bisnonna di cui conservava giusto un sorriso nel giardino e guadagnava finalmente il sonno. L’interesse verso Giulia era tuttavia assai ben dissimulato. Anzi, quando Gigi accostava al nome di Giulia un epiteto del tipo rompicoglioni, Luca rincarava la dose.
“Quel tale è un imbecille. Si vede dalla faccia, dai”
“Ci sta” acconsentì Luca.
“E poi sempre col padre viene”
“Si, sempre col padre”
“Anche il padre è un coglione”
“Ce n’hai per tutti” intervenne Giulia.
“Non cagare il cazzo” rispose Gigi “E poi la madre che fine ha fatto?”
“La madre? Boh, la madre. Non saprei? Morta, magari” disse Luca mentre guardava il ragazzo lanciare il bastone. Un bel lancio, un bel gesto fiero, pensò. Ma subito si vergognò di aver spezzato una lancia in favore del biondino, seppure col pensiero. “Chi se ne frega, comunque” disse per riscattarsi. Si accorse subito di aver detto una cosa abominevole e sentì lo sguardo sdegnato di Giulia addosso.
“Già, chi se ne frega” disse Gigi “Ad ogni modo secondo me mica è morta”
“No?”
“No, è che l’ha fatto con una puttana, tutto qui”
“Ma che modi Gigi, che schifo di parole, mi fai pena!” reagì Giulia dando un pestone all’acqua.
“Ti ho detto che non devi rompere i coglioni. Perché non te ne vai a casa?”
“Ma vacci tu a casa. La verità è che lo invidiate”
I due risero forte. Gigi di gusto, Luca di amarezza. Una goccia di sudore scese dalle ascelle e percorse i sali e scendi delle costole fino al costume.
“Cazzo c’è da invidiare? Che gioca con quell’ammasso nero di pulci e zecche? Quel cane spera in una bistecca, altro che bastone. Dimmi, che c’è da invidiare?” esclamò Gigi.
Giulia aveva una qualche idea della risposta, ma la sua giovane mente ancora non aveva gli strumenti per una argomentazione di successo. Preferì scuotere la testa e osservare piccoli pesci intenti a prendere a testate le dita dei suoi piedi.
Qualcosa di più avrebbe potuto argomentare Luca, ma non se la sentì. Un po’ per Gigi e un po’ per amor proprio.
Un quarto d’ora dopo Gigi era un puntino tra gli alberi e gli orti dei contadini. Il cane era scomparso. Il biondino si asciugava avvolto in un asciugamano di fianco al padre intento a scrivere qualcosa nel suo taccuino giallo. Il ragazzino ogni tanto si volgeva verso Luca e Giulia ormai pronti per rincasare e pareva accennare un sorriso.
“A me non pare così antipatico come lo fate voi, ci ha pure sorriso” disse Giulia mentre già avevano inforcato le biciclette.
“Bello sforzo”
“Voi manco quello avete fatto”
“E perché dovevamo farlo noi?”
“E perché doveva farlo lui?”
“Perché non lo hai fatto tu allora?”
“Io l’ho fatto infatti”
“Ah, bene”
“Beh, che sei geloso, scusa?”
“Si Giulia, sono geloso. Sono geloso e tu mi piaci molto, mi piaci così tanto che alla sera sogno di sposarti in chiesa con il prete che ci dice di baciarci e poi siamo tanto felici. E scusa, Giulia, se prima non ho preso le tue difese. Perchè si, io quel tipo quando tu l’hai detta quella cosa lì, ho capito che si, un po’ lo invidiavo. Gigi magari no, ma io si. Sono un coglione, una merda. Però vedi, io le parole ce le ho ma non escono mica. Vedi, c’è un videogioco a cui giochiamo tutti che quando completi i livelli ti danno delle monete finte che si chiamano Token. Tu con questi Token ci puoi comprare le cose. Le cose che ti mancano per avanzare di livello e diventare sempre più forte. Ecco, io vorrei che anche nella vita le cose fossero così. Che magari tu vai in chiesa e dici la preghiera alla sera e ti comporti bene e studi e non ti fai le pippe e alla fine il prete o il prof o la mamma o qualcuno ti danno i Token e tu ci puoi prendere quello che ti manca. E io prenderei un po’ di coraggio e le parole che non mi escono e poi prenderei te, prenderei te e ti sposerei. E poi comprerei anche il tuo sorriso perché mi hai fatto male quando hai detto che gli hai sorriso”
Ma questo lungo monologo lo udì solamente il vento. Le parole presero forma duecento metri dopo che Giulia, con la mano sinistra alzata in cenno di saluto, aveva imboccato il vialetto a sinistra che portava a casa sua. E il vento non ebbe di che rispondere né a questo né a tutti gli insulti che Luca si affibbiò fin al cancello di casa. Scaraventò la bici contro il muro e salì gli scalini con la testa bassa e ciondolante. Si fermò a metà. Una nausea improvvisa come non aveva memoria lo assalì, si sentì mancare l’aria e pensò di dover rimettere. Poi ritrovò l’ossigeno e ricominciò a salire le scale. Il malessere si era tramutato in una stretta a tre dita tra l’ombelico e lo sterno. Ancora gli venne meno il respiro. Entrò in casa. La madre era intenta a preparare la cena.
“Ciao Luca, com’è andata oggi al fiume?”
“E se gli piace? Se gli piace io cosa faccio?”