Estranei, ma familiari
Ho parlato di estranei incontrati in metro, per strada, ovunque. Ho parlato di volti mai visti prima, di passeggini che parlavano di neomamme, di messaggi che rattristavano. Non ho mai parlato di tratti più o meno familiari che rimangono estranei. Come il collega che vedo solo di tanto in tanto durante una videoconferenza, il vicino che continuo a salutare ma che rimane un mistero. Oggi parlerò di questi estranei meno ovvi e di come ci lasciamo convincere della loro familiarità da un paio d’occhi, dall’angolo della mascella, dalla gobbetta del naso che vediamo così tante volte.
Cosa so io di loro? Nulla. Conosco il colore della parete del loro studio, i quadri che si intravedono durante le nostre conferenze, il colletto della camicia che hanno deciso di indossare. Avranno il pantalone del pigiama mentre discutono seri di strategia? Hanno bambini monelli e impiastricciati nella stanza accanto? Cambiano voce quando parlano con loro? C’è una moglie, una fidanzata o c’è della solitudine nascosta dietro ogni pezzo di design usato per ammobiliare la casa? Sbirciano il cellulare mentre ascoltano gli altri?
Come amano, questi businessmen in giacca e cravatta? Come riescono a diluire la loro serietà nei discorsi d’amore? Si lasciano prendere o sentono il bisogno di comandare? Gli guardo le mani, alcuni gesticolano tanto, altri le muovono appena. Quanti estranei hanno incontrato a loro volta?
Il mio vicino ha i baffi e porta a spasso il cane ogni mattina e ogni pomeriggio. È un tipo silenzioso, sorride e annuisce molto, parla a mezza bocca. Quando è imbarazzato guarda il cane e capisco che è il momento di chiudere la conversazione per evitare imbarazzi e silenzi troppo densi per le sue spalle così strette. Lo chiamo vicino ma non so niente di lui. Eppure non è un estraneo, è il mio vicino. Lo riconosco per strada, lo saluto, gli tengo la porta aperta in ascensore. Com’era da giovane? Quanti sogni aveva? Era troppo timido per inseguirli? Lo voleva davvero un cane o lo hanno convinto i figli?
Poi se ne sono andati, e lui si è trovato solo a portarlo fuori tutti i giorni.
La signora che gestisce il bar sotto casa è un’abile venditrice. Attacca facilmente bottone, tu chiedi un caffè e lei ti convince a comprare anche un dolcino, un succo di frutta e magari qualcosa di salato. Ci riesce perché si appella ad una familiarità che non esiste. Mi chiama per nome, si informa di fatti basilari, mi illude come se ci conoscessimo, come se fossimo un po’ amiche, un po’ conoscenti. È contenta di avere un bar? Se l’aspettava così, svegliarsi presto la mattina e servire caffè a qualche muso imbronciato ancora caldo di sonno? Le manca la figlia lontana che studia per diventare medico?
Estranei.
Conosco il suo grembiule, il taccuino che usa per le ordinazioni, i fazzoletti di carta leggermente ruvida che puntualmente mette sui tavolini. Non so nemmeno il suo cognome.
Estranei con cui scambio pochissimi, essenziali cenni di vita mentre mi depositano addosso i loro gesti che sto imparando a decifrare. Li chiamiamo vicini, colleghi, conoscenti.
Non sono forse estranei, ma familiari?