Il personaggio in cerca di una storia
“Aiutami”.
“Come?”
“Scrivimi una storia d’amore”.
Se avessero fatto un elettrocardiogramma alla sua vita, la linea sarebbe stata piatta come quella di un morto. Era stato condannato, sin dall’inizio, a un’esistenza piatta, una vita remissiva, senza amore, senza amici, solo e incompreso sebbene mai odiato. Roba che la vita del professor Stoner sarebbe un’altalena di emozioni a confronto con la sua.
Ma lui non ci stava a questo destino scelto da altri, voleva vivere l’amore e pretendeva che ognuno dovesse essere responsabile – nel bene e nel male – delle proprie azioni e imparare a costruirsi il proprio destino, il miglior destino possibile.
E allora si arrampicò tra parole ingrate che descrivevano la sua vita. Scalatore che con mani nude e gessate si aggrappa a ogni minimo pertugio o punta che gli offre la montagna, anche le sue dita erano salde sulle righe che lo precedevano e con il piede sulla linea del presente a fare da propulsore per scalare tutto il paragrafo. Creava brecce tra lettere messe in un ordine che non accettava e avanzava spavaldo togliendo aggettivi e verbi che non meritava, in modo da uscire e farsi strada, fuori da quella storia che si rifiutava di vivere.
Una volta sul bordo della pagina afferrò quella del libro accanto a lui e si lanciò. Già solo l’incognita di dove sarebbe atterrato gli dava un’eccitazione che non aveva mai provato prima.
Cadde morbido su alcuni puntini di sospensione, in mezzo a righe in cui identificò in un attimo il protagonista; ebbe un attimo di esitazione per compassione ma preso dall’adrenalina lo prese e lo scaraventò giù dalla pagina. La storia, in quel punto, raccontava del sospetto di omicidio proprio del protagonista. Pertanto fu preso e ammanettato dalla polizia, non prima di aver preso qualche manganellata per la sua resistenza. Come spiegare che lui proveniva da un’altra storia e che non c’entrava nulla?
Mentre era in auto, direzione commissariato, l’arrestato riuscì a raggiungere una virgola, qualche parola più in là, che utilizzò per aprire le manette (nelle storie di fantasia si aprono sempre in maniera estremamente facile), in modo da poter poi prendere anche il punto di fine paragrafo poco distante. Scaraventò la sfera nera contro il finestrino (i punti possono essere MOLTO pesanti nella scrittura) e lo spaccò, si infilò nel vetro e si fece cadere in terra. Per fortuna non passava nessuna macchina, lo scrittore non aveva previsto un avvenimento simile quindi non c’era alcuna descrizione del traffico.
Cominciò a correre, saltando lettere e parole con lo stesso impegno di un saltatore di ostacoli che lotta per il primo posto. Arrivato al margine della pagina si lanciò nel vuoto a testa in giù e a braccia aperte.
La testa gli si incastrò perfettamente all’interno di una “u”, non sentiva dolore ma faticò un po’ per tirarla fuori da quella lettera che lo abbracciava quasi non lo volesse far andare via, se ci pensi anche le lettere cambiano continuamente partner, forse anche loro hanno bisogno di un rapporto più stabile. Tirata fuori la testa si aggiustò i capelli e guardando intorno vide che prima della “u” c’era scritto “pian” e dopo “ra. Si ritrovò difatti in una pianura, sterminata a perdita d’occhio, anche un lettore, cioè una persona reale, raramente avrebbe visto uno scenario del genere, senza il minimo accenno di montagna. Faceva un freddo tremendo, la sua storia originale era ambientata in primavera, pertanto la sua camicia non bastava per tenerlo al caldo. Una folata di vento gelido gli fece chiudere d’istinto gli occhi per ripararsi dal terriccio e dalla polvere che si erano alzati. L’autore di quella storia avrebbe posizionato, da lì a poche righe, subito dopo la descrizione del posto, due vastissimi eserciti opposti pronti a combattere in un corpo a corpo con spade, asce e lance. Era intenzionato a scrivere una guerra truculenta, fatta di teste aperte come cocomeri, occhi fuori dalle orbite, corpi dilaniati e fiumi di sangue. Ma di colpo si trovò quella piccola figura nel bel mezzo della scena. La prese come un’ispirazione e lo descrisse come un mago, visto il modo magico con cui era comparso, che definire potente sarebbe stato riduttivo (parole dello scrittore, non mie). Era stato inviato da un terzo regno per sconfiggere entrambi gli schieramenti. Così il nostro amico, senza il suo volere cominciò a vibrare, prendendo fuoco, allargò le braccia con i palmi delle mani diretti ai due schieramenti e lanciò due vortici di energia così forti e ampi che fecero un boato tanto grande che non si lesse mai prima di allora in un libro, suono che si estese a 360 gradi raggiungendo gli uomini un instante dopo che venissero descritti morti bruciati.
Il mago, rimasto solo in quella landa, tra la puzza di bruciato e le gride di aiuto di chi ancora sarebbe morto da lì a poche righe, pensò che in fondo non gli era andata poi troppo male. L’importante era di aver salva la vita. Ma l’autore, soddisfatto dell’ispirazione caduta dal cielo ma dispiaciuto per aver dovuto sacrificare la sua battaglia a suon di mazzate e fontane di sangue, decise che la truculenza si dovesse ora abbattere sul mago. E allora il nostro personaggio in cerca di una storia si dovette far forza e, mentre sentiva il suo corpo dilaniarsi tra dolori atroci, per lo sforzo fatto in onore del suo re, strisciò versò l’inizio del paragrafo, ma l’autore vedendolo tentare di fuggire aumentò sadicamente ancor più le pene inflitte, facendogli esplodere le mani, in modo da non permettergli di afferrare lettere e parole. Ma lui, ostinato a salvarsi, trovò un refuso: tre spazi tra due parole. Ci si infilò goffamente e la fortuna lo premiò perché volle che era proprio l’ultima riga del capitolo. Così, trovatosi nel piè di pagina, che in genere è lo spazio dedicato esclusivamente al numero della pagina e dove l’autore non mette mano, corse nell’angolo in basso e sparì nel nulla. Lo scrittore avrebbe sfogato i suoi istinti su qualche altro personaggio fittizio, in fondo la fantasia e la crudeltà non gli mancavano affatto.
Il nostro amico disgraziato passò tra una storia e l’altra1, fu il compagno di cella di Edmond Dantes, con cui decise di scappare, ma quando realizzò l’intenzione del signor Dumas di lanciarlo, infilandolo in un sacco, in mare, aveva capito che sarebbe morto nell’impatto o affogato o mangiato dagli squali. Dumas doveva ancora decidere ma qualunque fosse stata la sua decisione, per il nostro amico sarebbe andata male. Fuggì anche da lì. Altre storie furono meno pericolose ma il caso ancora non gli aveva regalato una storia d’amore, ciò che cercava sin dall’inizio, pertanto la fuga continuava. Sedette, e si annoiò a morte, alla cena con degli illustri fisici quantistici, fu il dottore che diagnosticò il cancro a Terzani e ubriaco fece l’amore con puttane altrettanto ubriache.
Così a seguire ancora e ancora, altre storie, altri personaggi. Camminò su una colorata mina antiuomo che gli fece saltare entrambe le gambe e all’ospedale di campo non avevano abbastanza medicinali per curare tutti i pazienti, si camuffò da donna per avere l’onore di insegnare a Hellen Keller a parlare e comunicare con quel mondo che gli era stato negato alla vista e alle orecchie. Stavolta non dalla maledetta penna di uno scrittore ma dalla vita stessa.
Fu anche una Ellen Jamesiana, la meno propensa a mantenere il giuramento di non parlare e per ultimo finì in un breve racconto: questo.
Oltre a essere breve, quando apparve, era stato appena iniziato. Come lo vidi lanciare disperatamente lettere e segni di punteggiatura contro il mio protagonista in erba, picchiandolo anche con un attaccapanni e un cappello2 attaccato su uno dei pomelli, fermai le mie dita sulla tastiera per mettere fine a quella scena grottesca e ci studiammo a vicenda. Tra i due sicuramente il più stupito ero io. Chi diavolo è questo pazzo comparso all’improvviso nel mio racconto? Mi sembrava stanco, esaurito, con un’espressione apparentemente demoralizzata, i capelli dritti, vestito con indumenti mezzi da uomo e mezzi da donna e con una sola scarpa al piede. Non so perché avesse con sé quel dannato attaccapanni con sopra un cappello, che lo aiutò non poco ad accoppare il mio personaggio, ma appena mi vide li gettò immediatamente, facendoli incastrare nel bel mezzo di due righe. Il piccolo protagonista, capendo che non gli avrei fatto del male, prese le lettere delle poche parole già scritte e, facendosi spazio, creò una parola: “aiutami”. Io digitai “come”? E lui: “Scrivimi una storia d’amore”. “Ma io non scrivo quasi mai storie d’amore, pensa che quando lo faccio in genere faccio morire uno dei due”. “Ti prego”. “Io sono solo uno scrittore da quattro soldi di racconti brevi”. L’omino si guardò intorno, poche parole semplici lo circondavano, riuscì a comporre la frase “falo pe prima volta r me. Tu nica seanza”, unendo anche le mani in segno di preghiera. Riempii la richiesta con le lettere mancanti e lui annuì, facendomi capire che avevo indovinato la sua intenzione.
Mi comunicò, con molta fatica nel reperire la materia prima delle lettere, che mi avrebbe raccontato la sua rocambolesca storia, dopodiché io avrei deciso se meritava una trama d’amore o meno.
Ora che l’ho ascoltata, scritta e riletta credo proprio che sì, in effetti merita di amare e di essere amato, fosse solo per premiare il suo iniziale atto rivoluzionario nel volere una vita migliore e la perseveranza con cui ha lottato per arrivare fin qui. Scriverò per lui il più bello e appassionante amore di tutti i tempi, senza far morire né soffrire nessuno. Ma questa… beh, questa è un’altra storia.