Le sarte da Storie di ordinariato
Quando la sarta smetteva di cucire, si posizionava dietro le persiane che davano sull’atrio interno del palazzo, due cortiletti stretti e spogli separavano i due condomini. Gli unici che non potevano vedersi erano quelli del piano terra e che abitavano le case senza sbocco sulla strada. Case interne e in eterna penombra. Vite stanche e brumose di un quartiere popolare, popoloso, stanco. Lei stava al primo piano, dietro quella lama di passaggio che lasciava intravedere lo smerlo delle tende. Il metro di stoffa sulle spalle, la stola sacra, il ditale estensione naturale di una mano, fede di un matrimonio indissolubile. Mi ero sempre chiesta quanti anni avessero la sorella e lei. Facce senza età, la tinta fatta in casa, mai incontrate fuori da lì. Erano mobilio come la sedia, il tavolo, la macchina per cucire che secondo me neanche la notte il piede smetteva di spingere il pedale in un movimento folle e ripetuto, e della sorella, di quella il nome non l’abbiamo mai saputo.
Mamma, ma come si chiamano le sarte?
E come vuoi che si chiamino? Le sarte sono. Le signorine.
Un’entità doppia, poco importava che una fosse più giovane e l’altra grassa, che una si tingesse i capelli di biondo, così chiari da farla sembrare trasparente, e l’altra vestisse sempre come se stesse andando all’opera.
Le signorine. Non si erano sposate.
La bionda aveva spostato la tenda, l’unghia rosso lacca, quelle si vedevano bene. Sapevamo che era là.
Dopo qualche minuto si univa un’altra ombra, la tenda aveva un sussulto lieve e sparivano entrambe, ricominciava il rumore ossessivo della Necchi.
Non le sopporto.
Lascia stare mi diceva mia madre, mischine che vita fanno?
La sensazione degli occhi delle sarte cuciti addosso, una mantellina fredda da scrollarsi non appena la persiana si richiudeva piano.
Sento freddo, loro guardano ed io ho freddo.
Vieni a stirare che ti riscaldi.
Non molleresti il ferro da stiro neanche sotto la minaccia di un’arma da fuoco.
Era l’una, quasi ora di pranzo. Non serviva guardare l’orologio, all’una in punto Lucia o come diavolo si chiamasse stava là, lei e i suoi artigli laccati, a me ricordavano le geishe. Si diceva che con ago e filo facessero piccoli miracoli, gioielli di sartoria e che avessero nei cassetti stoffe di pregio, come se le procurassero rimaneva un mistero, non uscivano mai, ma forse qualcuno in quella casa entrava.
Come mi piacerebbe fare cucire un vestito dalle signorine!
Mamma, ma per andare dove? Anche tu stai sempre in casa a lavare e stirare.
Non si sa mai nella vita.
Vita? Quale vita?
Dove si trovava, l’una c’era anche l’altra, una iniziava le frasi, l’altra le finiva.
La più vecchia raramente esprimeva un che di disapprovazione guardando la minore, uno sguardo contenuto.
Quando tornavano al lavoro e la loro sorveglianza s’interrompeva mi divertivo a lanciare le pinze del bucato ai gatti che passeggiavano sui bordi dei muretti, insolenti e audaci. Una delle due richiamate dal rumore affacciava la punta del naso.
Buonasera signorina, non mi rispondevano mai.
Sono pure maleducate!
Vieni a pranzare, che si fredda.
Detestavo in mia madre quella deferenza che provava nei confronti delle signorine.
Sono così brave nel loro mestiere.
Mamma, ma chi ha visto mai un abito cucito da loro? Come puoi dire che sono brave?
Lo so e basta e contrariata mia madre, si rimetteva a stirare.
Adesso aveva un ferro a vapore ultimo grido, pareva un treno che arriva e parte in stazione e siccome quell’arnese nuovo le piaceva, finito di stirare ricominciava. Una camicia la stirava anche tre volte.
Al quarto piano ci sta l’amante di una delle sarte, della più vecchia forse, lo sanno tutti. Quel tipo burbero e macilento che ha conservato soltanto l’altezza e una potenza nello starnuto, con la quale vuole ricordare a tutto l’isolato che lui c’è e non si può ignorare. Quando starnutisce i gatti scappano e i bambini piangono. È il marito della signora Carla.
Carla soffre la miseria, elemosina i soldi della spesa e fa acrobazie con il cibo che riesce a comprare.
Loro, le signorine vivono senza spendere un soldo.
L’amante va mantenuta e anche la sorella
Forse sono amanti entrambe, forse è un ménage a tre.
Ancora con questa storia, tu ti sei bevuta il cervello figlia mia.
Ora ho capito, è lo starnuto, il segnale, il vecchio porco apre la porta e la macchina a pedale copre ogni rumore.
Quel giorno il portiere aveva recuperato il canarino della signora Carla caduto in giardino.
Signora ma che combina? Per miracolo lo presi. I gatti facevano come i pazzi, dalla bocca glielo ho levato.
La signora Carla lo aveva raccolto dalle mani del portiere, la testa incassata nelle spalle, gli occhiali appannati. In quel momento si era sentita la furia dello starnuto che faceva vibrare i vetri e per lo spavento per poco lei non aveva strozzato il volatile già tramortito.
Il vecchio non sapeva che era un’uscita rapida quella della moglie e non lo sapevano neanche le signorine.
Così gli uccelli flosci quel giorno furono due e come in una commedia degli equivoci si ritrovarono marito moglie e amante.
La versione ufficiale fu che il vecchio stava facendosi fare un paio di calzoni nuovi e la sarta stava là a misurare. Nel trambusto della fuga la sarta perse il ditale e un’unghia laccata di rosso.
Vedi mamma, te lo dicevo che queste qua non sanno cucire. Calzoni da uomo? Ma non facevano abiti da sposa?
Il vecchio sganciò i soldi per una gabbia nuova, per giorni i gatti camminarono indisturbati sui cornicioni. E il vecchio porco per un bel pezzo non starnutì, in tanti speravamo fosse morto.