Furto 12 – La baguette
Sono alto un metro e ottantuno centimetri, senza ciuffo, detesto la frutta rossa e il rumore plafplaf delle ciabatte da donna sudaticce. Ma la regina delle mie certezze, lei, l’unica, indiscutibile, costante, sempre presente, la certezza delle certezze per antonomasia è che ho una fobia.
Una. Quella.
La fobia delle blatte.
Potrei scrivere una tetralogia in merito, potrei raccontare esperienze al limite della decenza, del ridicolo, della follia, potrei illustrarvi metodi alternativi per non incrociare una blatta, per ammazzarla senza toccarla, per evitare che rimanga nella vostra mente quel movimento spettrale di antennine che vi puntano, perché sì, le blatte ci puntano con quelle perfide antennine e avvertono la nostra paura e fanno in modo di trovarci in qualsiasi parte del mondo ci troviamo.
È una sera tranquilla, la camera illuminata dalla lampada del comodino, una leggera arietta dal balcone, la tapparella abbassata. Avverto però che qualcosa non va, avverto qualcosa fuori posto, perché la fobia è come una scoreggia sull’autobus, senti la puzza ma non capisci da dove viene. A un certo punto sento un suono raccapricciante, come di ali che sbattono e di oggetto che si schianta, ma non vedo nulla e penso alle mie solite paranoie mentali. All’udito poi si aggiunge la vista, ed è l’inizio della fine, perché quella che poi scoprirò essere una blatta maledetta si appoggia direttamente sulla lampada provocando un effetto ombra cinese che se ci penso mi viene da morire.
PANICO.
Mi alzo di scatto, urlo come se dovessero sentirmi dalla Calabria, accendo la luce, la blatta è volata sulla tenda. Passo in rassegna le tecniche fino a quel momento utilizzate, inserisco il filtro ali, il filtro tapparella abbassata, il filtro sonosoloporcocazzo e scelgo quella che mi sembra la soluzione più adeguata: lanciare tutte le scarpe in mio possesso in direzione della tenda, e così faccio. Prendo bene la mira, lancio la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta e anche una delle ciabatte che ho ai piedi, ma solo una perché l’altra potrebbe servire. Sul davanzale della finestra si vede il terriccio delle piante grasse colpite in questo impeto di sopravvivenza, sul pavimento il delirio. Rimango immobile, la seconda fase è più drammatica della prima, bisogna verificare che la blatta sia morta, stecchita, che abbia smesso di muovere quelle odiose e perverse antennine.
Chiamo mia sorella, impreco, faccio grossi respiri come se dovessi partorire, vado in cucina a prendere una scopa, torno, impreco, respiro ancora, mi prendo di coraggio, mi ripeto celafaccio nochenoncelafaccio daichecelafai nomachecazzodicicomefai, salgo sul letto, scosto la tenda con la scopa, sudo, inizio a spostare le scarpe, la blatta non c’è, la blatta è scappata.
PANICO.
Scendo di scatto dal letto, urlo come se dovessero sentirmi dalla Tunisia, la blatta si è volatilizzata. Chiamo la mia amica Valeria, impreco, le chiedo di iniziare a prepararmi il letto perchécolcacchiochedormoinquestastanza, tolgo le lenzuola, sfodero i cuscini, tolgo qualsiasi oggetto da terra, ribalto la poltrona, un incubo. Decido di mettere del blatticida in ogni angolo della camera, pregando di trovarla stecchita l’indomani. Richiamo Valeria, impreco, le dico che a breve sarei uscito, mi dice portatiuncuscinoquore. Esco così com’ero, in pigiama, con il cuscino sotto l’ascella come una baguette, sotto una improvvisa pioggerellina dopo una giornata di sole asfissiante e venticinquegradiallombra. Cammino, sembro scappato da una clinica psichiatrica. A un certo punto avviene l’apocalisse, l’inimmaginabile, l’apoteosi della sfiga, come quando giri l’angolo e pesti una cacca di cane molliccia con le tue scarpe appena lavate: mi si accosta una volante della polizia. Mi guardano, come dargli torto. Mi chiedono dovestandando. Con la baguette di cuscino sotto l’ascella, umidiccia per la pioggia, rassegnato come un nano che si è innamorato della più alta del paese, rispondo misièallagatacasa. Non avrei mai potuto dire la verità, in fondo dovevo conservare ancora un briciolo di dignità. Mi lasciano andare, sorrido, arrivo da Valeria, non dormo. Durante la notte accendo almeno quaranta volte la torcia del cellulare.
L’indomani mi sveglio all’alba, sempre in pigiama e con la baguette torno a casa. Entro sottecchi, osservo, respiro, prego, impreco, penso al preavviso da dare al padrone di casa per lasciare la camera, osservo ancora e la vedo, vedo lei, l’inutile essere vivente accanto all’armadio a pancia in su con le antennine che ancora si muovono leggermente.
PANICO.
In effetti, penso, andava cambiato.