Angela
Una donna sui quarant’anni, sola, magra, minuta, in abiti da mercatino. Capelli crespi e scuri, le punte rovinate da un antico tentativo di decolorazione fai-da-te. Aspetta l’autobus alla fermata che come al solito non arriva mai. Decide allora di incamminarsi, immersa nel suo flusso di pensieri.
Che ore sono, le due? Devo stare attenta a traversare, qui mi mettono sotto. Matri, guarda la gente che sale sul tram. Ma poi, dico, come pozzono respirare? Meglio andare a piedi, va’… così mi guardo le vetrine. Là ci sta l’agenzia di viaggi…? Uuuh, hanno cambiato fotografia. Ci sta quella col mare, adesso. Chi sa, poi, che posto è, forse la Sicilia? Dieci anni sono ca’ non ci torno. E si, dieci anni perché il maggio passato Sara si cresimava e io pensavo che strano, mia figlia si cresimava. Quando mi stava in braccio non parlava ancora, non mi chiamava mai. E io cantavo, Ciuri ciuri, Vitti ‘na crozza, le canzoni dei pescatori… lei chiudeva gli occhi. Poi ad un colpo li apriva e rideva, io mi scantavo. Ah ecco, siamo arrivati. Talìa chi bedda, la piazza vuota. Ora cominciamo a lavorare.
La donna si siede sul bordo del marciapiede che porta a Castel S. Angelo. Tra qualche ora sarà pieno della varia disperata umanità di cui fa parte, varie forme di disperazione; ognuno con la sua merce a rischio per incantare i passanti e portare la giornata a casa. Ore, ore sotto un sole malato prima e i morsi umidi che salgono dal fiume sottostante poi, per fare qualche soldo e dimostrare a se stessi di essere ancora vivi, senza azzardare a chiedersi mai come. Tira fuori da un borsone una bambola di pezza, inizia a cucirle dei fili di lana sulla testa. La sua merce Angela la fabbrica da sé. Comincia a parlare, rivolgendosi alla bambola:
Oggi mi devo sbrigare, alle sette ho Cinecittà. Stavolta mi fa un primo piano, ha detto. Perché c’ho gli occhi strani, uno blè e uno nìuro, e ci fa meraviglia. Patri diceva ca ero àncilu e dimoniu insieme. Ma che m’importa, io ci vedo bene… è l’importante. Poi andiamo da mio fratello, oggi ci hanno chiuso l’albergo. A mugghieri del patruni turnò. È tanto bravo, Mimmo. Me frati. Anche la moglie è brava. M’hanno tenuta in casa da quando arrivai a Roma, al principio stavo con loro e gli guardavo i picciriddi, poi mi stancai. Non ci vado più, solo qualche notte. Loro sanno che sono domestica, che sto dai signori. E che, gli potevo dire quello che faccio davvero? E già, perché… che faccio? Vendo le bambole per strada a chi le vuole, l’amore per strada a chi gli va. E ogni tanto m’invento che sono un’altra, o un altro, al cinema, e mi lascio guardare. Gli occhi strani e tutto il resto. A Mimmo non piacerebbe. Lui è uno importante, fa il poliziotto. M’arricordo ‘a faccia di me matri quando parlava in paese del lavoro di Mimmo, delle lettere piene di racconti. E quante volte chiesi a mio marito di portarmi a Roma, da Mimmo. Ma lui no, troppo impegnato. Era dutturi. E si stava pigghiando un’altra moglie, ca si tenesse a lui e alla bambina. Che fatica, meschino. E no, proprio non c’era il tempo.