La pioggia (rivoluzione in giardino)
La palla rimbalza sulle mattonelle in pietra del giardino. Una pausa di qualche secondo e poi ancora un rimbalzo. E così cinque, sei, sette volte. É quel periodo dell’anno in cui i raggi del sole recano solamente gioia all’epidermide. I pori della fronte aprono il cuore all’antica divinità, le cellule degli zigomi si dilettano nel tiro alla fune. Alla fine dell’esposizione un tenue magenta è steso qui e là sul viso. Nulla brucia, tutto è vita. Ma il sole in questa giornata si è velato come un Cristo del Mantegna e i raggi, quando arrivano sugli avambracci di Nadia, hanno già perso tutti i loro doni. E così basta un alito di vento e i pori, delusi, erigono centinaia di minuscole collinette. Nadia stringe la testa tra le spalle e fa rimbalzare la palla ancora una volta. Poi si siede a terra e abbraccia il pallone. C’è odore di erba tagliata e l’odore di erba tagliata è l’odore del nonno. É arrivato al mattino mentre lei faceva lezione al computer e se ne è andato senza manco salutarla. Il nonno è fatto così. Amen. Qualche rimasuglio di erba sulle mattonelle. La casa alle spalle. Il giardino, una lunga striscia di erba appena tagliata, è lì davanti. Poi ci sono le colline con i contorni che oggi sono anch’essi un po’ insicuri. E infine ci sono, a destra e a sinistra, le recinzioni che dividono il giardino dagli altri giardini e lei da Luca, a destra, e da Simone, a sinistra. Nadia sbuffa e appoggia la fronte sul pallone.
Prima era tutto più semplice per Nadia. Prima della quarantena si stava tutti in un luogo, tutti insieme. Lei, Luca, Simone e anche qualcun altro. Allora non c’era bisogno di scegliere con chi giocare a pallavolo. Preferenze: sì, certo, qualcuna sì. Che preferisce stare con Luca è chiaro a tutti. Forse a Simone mica tanto, ma meglio così. Ad ogni modo niente di esagerato. Simone le serve perché ha un anno in più e la matematica gli riesce come a lei riesce la pallavolo. Sei cinica, Nadia, ha detto sua madre a colazione. Ma Nadia ha tuffato il biscotto nel latte, fatto spallucce e guardato le colline oltre la finestra.
La sera prima, mentre faceva i compiti, alla TV c’era un film western. A Nadia di quel film interessava meno di niente, ma è abituata così: quando studia ha bisogno della TV in sottofondo. Questo fa arrabbiare la nonna, quando Nadia è a casa di lei. La mamma me lo lascia fare. La mamma, la mamma, bella madre che è tua madre. Ma se mi ha detto che lo faceva anche lei quando andava a scuola, nonna. Allora la nonna tace, scuote la testa, guarda il volantino del supermercato e si perde tra un’orata scontata e un ricordo a caro prezzo.
Solamente finiti i compiti, mentre attendeva che la mail caricasse il file in allegato da inviare al Prof, Nadia ha degnato il film western di uno sguardo. C’era un tipo con un poncho e un cappello. Un paio di altri tipi anch’essi con poncho e cappello, però stesi a terra, morti. “I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra e io nel mezzo” ha detto il tipo con il poncho e il cappello ancora in piedi. Il file era stato allegato da un pezzo e Nadia osservava ancora il televisore.
Simone da una parte, io dall’altra e Luca in mezzo. Là in fondo, tra le colline, c’è una macchia di sole. Nadia stringe il pallone tra le ginocchia. Ieri c’era solo Luca. Anche l’altro ieri. Simone sicuramente è rimasto a studiare. Ma oggi è sabato e il sabato pure lui si prende un pomeriggio libero. Giocare a pallavolo in tre è impossibile, il suo giardino è largo dieci metri e nel suo giardino, regole alla mano, non può entrare alcun estraneo. Simone e Luca non possono scegliere con chi giocare, lei si. E questo per Nadia è terribile. C’era un tempo, e quel tempo era solamente un paio di anni addietro, in cui certi problemi, al di là della quarantena, non si sarebbero posti. C’era sempre qualcuno che sceglieva per lei. Poi sono iniziate le prime ribellioni al dispotismo illuminato della madre. Aspetta che sarò più grande e ti faccio vedere. Ecco, ora è più grande e la rivoluzione si è già impantanata in un giardino tagliato di fresco.
La macchia di sole tra le colline scompare. C’è un odore strano nell’aria. Nadia fa uno starnuto. Il velo attorno al sole si è fatto sudario. La palla rimbalza freneticamente tra le mattonelle di pietra e le mani di Nadia. Il rumore scavalca il recinto del giardino. Luca si affaccia sulla destra. Mastica qualcosa e fa cenno con la mano. Ciao Nadia, giochiamo? Forse Simone non c’è. Forse è uscito con i suoi. E invece Simone fa capolino dalla parte opposta di Luca e saluta. Poi quel gesto inequivocabile: le mani giunte a palleggio. Da qualche parte, tra le viscere di Nadia, la linfa si è fatta solida e ha creato un grumo che col passare dei secondi diviene macigno.
Nadia mette la faccia dietro il pallone e chiude gli occhi. Poi una goccia d’acqua si infrange sul gomito. Nadia apre gli occhi. Un’altra goccia, questa volta sulla mano sinistra. Il pallone scende di qualche centimetro e gli occhi di Nadia sono liberi di osservare le colline ormai appena tratteggiate e i due simmetrici vicini, entrambi con le braccia e gli sguardi rivolti al cielo. Il diaframma di Nadia si decontrae. Nel suo cartone animato preferito c’è uno strano essere di nome Totoro che in una scena ascolta per la prima volta in vita sua il rumore della pioggia sull’ombrello. All’inizio ne è spaventato, poi questo rumore cadenzato e pieno lo entusiasma. Davanti a Nadia non c’è più il giardino né le colline e manco Luca e Simone. Solamente un enorme Totoro. Grande come quello che avrebbe voluto da bambina e nessuno le aveva comprato. Tra qualche anno me lo compro da sola. Ecco, la rivoluzione dev’essere nata così.
Il sole di maggio e la playstation non vanno d’accordo. Ma oggi piove. E poi non ci sono giardini e quarantene e nessuno ha l’onere di stare in mezzo. Nadia fa una mossa che favorisce Luca. Poi dice di essersi sbagliata e nasconde una risata dietro al polso. La pioggia cade, la rivoluzione può attendere.