Racconti di evasione – Le scarpe da trekking
Quando metto le scarpe da trekking va tutto bene.
Va davvero tutto bene.
Eppure le ho comprate tempo fa senza molta convinzione.
Sono una ragazza di città incredibilmente pigra, soprattutto da quando sono diventata adulta. Quando faccio sport sembro ridicola.
Una volta mi sono iscritta in palestra, ho fatto una lezione di prova vestita con una tuta nera e una maglietta enorme e vecchia presa a un concerto rock, sono uscita e non sono più tornata. Mi hanno inseguito per anni con email minatorie perché avevo promesso di fare un programma annuale ma non mi sono fatta più viva.
Ho provato e non è scattato niente ma vallo a spiegare alla signorina e al signore, palestrati e con gli occhi spiritati, che mi richiedevano promesse eterne che non ho mai mantenuto neanche davanti a un fidanzato.
Figurarsi per il pilates cardio workout con Kristian.
Un sabato pomeriggio sono andata al megastore di articoli sportivi a Grugliasco e ho chiesto delle scarpe per camminare.
Mi hanno proposto tre o quattro modelli insieme a una spiegazione su una serie di vantaggi tecnologici, mi hanno chiesto del tipo di terreno, parlato di temperatura, dell’umidità.
Mi servono per camminare, ho detto.
Era stata una settimana bestiale al lavoro in uno studio di architettura di due personaggi famosi in città; avevo alzato la mano alla riunione settimanale del venerdì per fare il punto della situazione e ho chiesto di partecipare di più ai progetti, di cambiare qualcosa.
Si è fatto sempre così, va bene, è sicuro, mi dicevano.
Timbro e firma timbro e firma, fidati.
Oggi ho indossato di nuovo le scarpe da trekking ma questa volta non cerco risposte né abbracci
Non mi sta più bene, ho detto.
Nella catena di montaggio serve qualcuno che faccia quello che fai e basta, mi hanno risposto.
Quella domenica mi sono svegliata e dopo colazione ho messo le scarpe di trekking ai piedi e Billie Eilish nella playlist del telefono; poi sono andata nel bosco vicino a casa e ho seguito un sentiero.
Vivo in una cittadina vicino a Torino dove ho la fortuna di vivere circondata da boschi che fino ad allora avevo ignorato con indifferenza, attendendo la possibilità di scappare a vivere in città il prima possibile. All’orizzonte c’erano le montagne imponenti che fotografavo per Instagram e delle quali non conoscevo neanche un nome.
Era una giornata tiepida di maggio dopo una settimana di pioggia. L’odore dell’aria era incredibile.
Una coppia di donne mi ha salutato con un sorriso mentre si incamminava nella mia stessa direzione.
Ho incontrato nella mia strada faggi, larici, felci preistoriche, piante di aglio orsino, fiori di iris selvatici, funghi, muschio. Seguivo le tracce disegnate sui tronchi degli alberi; arrivare da qualche parte sembrava un obiettivo sicuro ma non era fondamentale.
Oggi ho indossato di nuovo le scarpe da trekking ma questa volta non cerco risposte né abbracci.
Dovevo piantare i piedi a terra. Camminare, come avevo detto alla confusa commessa della Decathlon, camminare fino a farmi abbracciare dalla mia stanchezza, senza una strada predefinita.
Con decisione. Ribadire il mio spazio, fare sentire alla terra la mia presenza.
Non sono più tornata a quel lavoro là.
Mesi dopo ho preso una supplenza di sostegno a scuola e pensavo che sarei affogata subito nel marasma degli adolescenti, ho continuato a camminare nel bosco ogni qual volta mi sentivo sopraffatta e piena di domande. All’inizio è capitato diverse volte.
Oggi ho indossato di nuovo le scarpe da trekking ma questa volta non cerco risposte né abbracci.
Vado a camminare nel bosco, ho preso a farlo spessissimo, di gusto e senza contratti annuali da firmare col timbro, né bulloni burocratici, né Kristian o capi sadici.
Scopro nuovi sentieri, ne conosco tanti ormai. Ho i miei bastoncini da trekking e un piccolo zaino nel quale metto una borraccia, pane e cioccolata.
Salendo dal fianco più luminoso della montagna pensavo al modellino della cellula che ho fatto questa settimana al lavoro per il mio alunno: ho usato glicerina e colorante, mi sono arrabattata per capire in che modo potevo spiegargli l’elemento del quale siamo composti tutti. Mi è uscito un romanzo sull’uguaglianza accompagnato da una semisfera gelatinosa e trasparente con dentro delle formine di plastica.
Che lui ha sfottuto alla grande.
Ma vedo che gli piace come parliamo, che apprende, legge, si interroga su cose profonde; non era così all’inizio. Era oppositivo e prevenuto, aveva uno sguardo feroce, mi dava le spalle e non parlava.
Propongo tante idee che attende con interesse mentre io mi presto volentieri ad ascoltare le sue storie sgrammaticate e confuse di dodicenne cresciuto senza molte opportunità.
Oggi la giornata è celeste e alzando gli occhi al cielo gli alberi sembrano decorazioni giapponesi in uno sfondo luminoso, si sentono le cicale. Gli alberi hanno l’edera attorcigliata e la terra non è scivolosa, nonostante l’umidità, permette una pedata forte e sicura.
Si sente il rumore di un ruscello che mi accompagna senza farsi vedere e ogni tanto compare, bagno i piedi, riconosco un falchetto, mi è capitato di incontrare caprioli e cervi. Saluto chi vado incontrando.
A volte arrivo in qualche rifugio a cercare un po’ di riposo, altre volte nelle cime delle alte montagne, le saluto col loro nome; ora non faccio foto ma mi siedo e abbracciamo insieme la visuale all’orizzonte.