La 24 ore
L’inquadratura è statica e stretta su una valigetta lasciata a terra, una classica ventiquattro ore.
L’immagine si allarga e il soggetto allontana. Si vedono poche persone nel vagone della metro, se ne contano cinque, di cui due siamo io e Luisa, mia compagna di viaggio in metro e nella vita. Il sesto era l’uomo appena sceso dalla metro.
La scena successiva è un flashback che mostra un signore sulla sessantina che si siede poggiando a terra una valigetta. Si sporge in avanti e si strofina dapprima gli occhi, poi si dà una passata su tutta la faccia. Guarda pensieroso un punto non definito, direzione pavimento. Dal pavimento invece la ventiquattro ore lo guarda con compassione. Quando si alza per scendere a EUR Magliana, inconsapevolmente, deve scegliere se portarsi dietro i pensieri o la ventiquattro ore.
Sceglie i primi.
Luisa si accorge, dopo qualche minuto, di quel contenitore nero con il manico logoro che reclama attenzione servendosi solo della sua staticità. Però funziona.
«S’è dimenticato la valigetta!», esclama la mia dolce metà. Gli facciamo eco con la stessa frase anche noi reduci nel vagone.
Per trovare un riferimento, in modo da contattare il padrone, dobbiamo vederne il contenuto. Così io e Luisa la prendiamo e decidiamo di aprirla.
Scoperchiare quella valigetta è stato come aprire la porta di una casa ed entrare. Ci sono una serie di documenti personali, fondamentalmente di due tipi: medici e giudiziari. Non ne leggiamo i particolari, per rispetto e perché in fondo stiamo cercando solo qualche informazione per rintracciarne il padrone: un nome, un cognome o magari un numero di telefono.
Cerchiamo tra diagnosi, terapie, sentenze e atti del tribunale. Tra i tanti fogli in bianco e nero l’unico colore ce l’ha la foto di una bambina al mare, avrà sei, sette anni. Al momento dello scatto guardava il fotografo con una faccia stupita, adesso guarda noi e la faccia sembra, invece, infastidita, come se ci dicesse: «Ehi, giù le mani!»
Troviamo le informazioni che cercavamo, certo non un numero di telefono ma per quello chiediamo aiuto a mamma Internet, prima con Facebook, ma nel profilo ci sono solo due foto visibili. In una c’è un uomo con una bimba sulle spalle, ma non siamo sicuri sia lui. L’altra ritrae un pezzo di carta sopra un tavolo, con su scritto “Io ti amai.”
Cerchiamo altrove e grazie a papà Google stavolta troviamo un numero, verifichiamo se il suffisso sia della zona in cui si trova la via e una volta confermato chiamiamo.
Risponde una voce bambina: «Pronto?»
«Pronto ciao, c’è mamma o papà in casa?»
«C’è solo mamma, papà è ancora a lavoro.»
La piccola ci passa la donna e le spieghiamo la situazione. Ci diamo così appuntamento davanti al gabbiotto della stazione Laurentina. Lei si preoccuperà di contattare il marito e di comunicargli l’appuntamento.
Lo aspettiamo una ventina di minuti, poi lo vediamo arrivare con un passo dimentico della fretta. Come in metro, anche qui appena arrivato si dà una strofinata agli occhi e lo sguardo rimane sempre sullo sperduto e pensieroso.
«Grazie di cuore, siete stati molto gentili, ci sono documenti molto importanti dentro», ci dice con voce calma ma leggermente tremula per poi porgerci la mano e salutarci.
Non nascondo che la mia penna (o dovrei scrivere “tastiera”?) invidia le penne di scenografi e scrittori, loro avrebbero terminato il racconto, per lo meno, con un abbraccio o con noi tre e la sua famiglia a mangiare insieme intorno a un camino. La realtà però, si sa, è diversa, semplice e umile ma nella sua semplicità scrive di una stretta di mano e di uno sguardo, nel momento del “grazie”, così veri e sentiti che nemmeno il più bravo degli attori avrebbe potuto fare meglio.