Appocundria da astinenza teatrale
– Ueuè!
– Dici a me?
– No, a soreta! Sì che dico a te. Tu vedi, forse, qualcun altro nei paraggi? A parte quella quadrupede spargipelo che di notte scorrazza per tutta la casa e non mi fa chiudere occhio.
– Accorta a come parli di Holly, ci metto un attimo a smontarti biglietto per biglietto.
– Non lo faresti mai, so quanto ci tieni a me. A proposito, ma cosa avevi da fissarmi poco fa con quella faccia tutta mogia abbracciata al mocio?
– Eh…
(le vengono i lucciconi agli occhi)
– Eh cosa?
– Mi è venuto un attimo di appocundria a guardarti, muta custode di tutte le emozioni che ho vissuto a teatro.
– Muta lo dici sempre a soreta! Messo in chiaro che qui di muta non c’è nessuna, compresa la quadrupede pelosa che anzi, per i miei gusti, miagola pure troppo, veniamo al punto: io comprendo l’appocundria del momento, ma si tratta, appunto, di un momento. Non la fare così drammatica, meno pathos, su!
Ma che ne vuoi sapere, tu, di come si sta in quarantena?
(le rivengono i lucciconi agli occhi)
– Bellella, guarda che lo so quanto sei legata a quel mondo lì, sennò non mi avresti tappezzato di biglietti degli spettacoli che hai visto.
– Ecco, allora se lo sai, mo lasciami in pace con la mia appocundria!
– Eh no, bellella mia, mo basta con quella faccia da funerale! Il teatro non è mica morto! Anzi, secondo me è più vivo che mai e lo ritroverai in forma smagliante quando rialzerà il sipario.
– Grazie per le parole di conforto. Ma chissà quando arriverà quel giorno. E intanto l’appocundria saglie…
– Marò tu e st’appocundria! Non mi fido proprio di vederti accussì. Che ne dici se ti racconto una storia per risollevarti un po’ d’animo?
– Mmm… sentiamo…
– C’era una volta un virus che era così pericolosamente contagioso da somigliare alle “Mine vaganti”. Aveva reso le giornate delle persone costrette in casa un vero e proprio “Delirium vitae”. Per non impazzire del tutto, ognuno metteva in atto la strategia che riteneva più adatta. Ma ad andare per la maggiore erano i fornelli. “La cucina”, che prima era un luogo perlopiù di passaggio, divenne lo spazio domestico più frequentato. Pizze, dolci, pasta fatta a mano, tutti con la parannanza per riempire la panza e gratificarsi almeno con il cibo. E della prova costume chissenefrega, tanto quell’estate in spiaggia nessuno avrebbe sfoggiato “Il corpo giusto”.
Ogni tanto, nel silenzio surreale che dominava strade e cortili, si sentiva qualche “Bisbetica domata” gridare ‘Ce la faremo!’
E fu così che arrivò la fase 2. Che non era la famosa fase 2 tanto agognata da tutti, ma quella del ripiegarsi su se stessi, del rintanarsi nella propria appocundria. Lì a tenere banco non erano più gli inni gridati a squarciagola, la farina e il lievito, ma “Tante facce nella memoria”, quelle di genitori, figli, amici, amanti, colleghi. Volti che spesso facevano capolino dagli schermi di smartphone e computer ma che no, non era la stessa cosa che guardarli dal vivo. E allora montava la rabbia verso quel disgraziato di virus, “Un nemico del popolo” che aveva imposto il distanziamento sociale. E poi arrivava la notte, il momento più duro, quello in cui tutti venivano assaliti da “Questi fantasmi” così difficili da tenere a bada. Fino a quando gli incubi cedettero il posto al “Sogno di una notte di mezza estate”, bellissimo, in cui finalmente la quarantena era finita e tornava “La gioia” di riabbracciarsi.
– Peccato che questa sia soltanto una storia.
– Eh no, piccerella mia, non può essere soltanto una storia se a suggerirmela sono stati i titoli dei tuoi tanto amati spettacoli teatrali. Ti ricordi cosa diceva Eduardo?
– Cosa?
– “Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male”.
– E con ciò?
– Ohhhh! Santa “Misericordia”! Non capisci? A te questa quarantena ti sta scimunendo assaje! Intendo dire che il teatro non mente. Quindi questa che adesso a te sembra soltanto una storia, presto sarà realtà. Fidati.