Si, ma dopo che succede? (feat. una ponga)
Il vento è arrivato all’improvviso. C’era la vicina di casa con le mani impegnate in due confezioni d’acqua e la mascherina tangente gli occhiali da sole. La guardavo dalla finestra mentre mangiavo una mela. Appena ha varcato il cancelletto del condominio la sua bionda coda è stata strattonata e sferzata senza riguardo. Pareva quando sul calci in culo qualcuno tocca il codino senza riuscire ad agguantarlo. Con la differenza che il codino appeso ritorna subito in verticale, mentre la coda della vicina è rimasta a lungo in orizzontale. O almeno credo. Perché poi mi sono messo a guardare l’albero oltre la strada per capire quello che stava accadendo. Si. Succede, a volte, in pianura Padana. Il vento compare così, senza preavviso. Come se le montagne starnutissero e tutta quell’aria dalle narici dei monti arrivasse a valle in un baleno. Ho dato un ultimo morso alla mela e guardato il torsolo. Poi ho sospirato col naso, che la bocca era impegnata a masticare. Oggi non si corre. Mi dispiace, amica ponga, per oggi niente.
All’inizio doveva essere una settimana, poi due, poi un mese, poi non so più che cazzo dire, tenete duro e buona fortuna. Io tengo duro, non è un problema. Ho sperimentato gabbie più spettrali che i muri di cemento e la resilienza sapevo cosa fosse prima ancora di conoscere il significato della parola. Non mi fa paura l’oggi e manco il domani. Sul dopo domani, invece, qualche perplessità la nutro. Ci penso mentre ripongo le scarpette da ginnastica che tanto, come detto, oggi non si corre. Ricordo un film di Luis Bunuel, Simon del deserto mi pare si chiamasse, dove il protagonista era uno stilita che dalla sua colonna del V secolo d.C. si trovava catapultato in un night club di New York dei nostri tempi. Forse finirò per essere assuefatto da tutto questo silenzio, da questo stile di vita blando, da queste settimane che sembrano risme di carta fresca e vergine e ci puoi disegnare sopra tutti i cazzi da muro che ti pare che tanto nessuno ti verrà a rendere conto di come hai usato quella cellulosa. Sono giornate da underdog, da outsider della porta accanto. Giornate in cui se finisci la carta igienica puoi sempre usare le convenzioni sociali.
Ho sempre avuto una sorta di predilezione verso le cose inutili. Oggetti che vengono creati perché la catena di montaggio o perché l’ispirazione del momento o perché c’è da riempire qualcosa. E poi non se ne fa nulla. Solo che ormai quegli oggetti ci sono e hanno diritto ad una sorta di rispetto. In questi giorni corro quando è buio pesto e corro nei parchetti dietro casa. Posti dove la gente porta il cane a cagare, dove le tredicenni sperimentano i filtri di Instagram e quelli delle sigarette. Poi mangiano un chewing gum per fregare i genitori e fanno un video per TikTok. Ogni tanto mi spingo al confine della città. Che poi è cinquecento metri da casa mia. Abitare al limes della città ha, almeno, questo lato positivo. Il mio inutile oggetto di venerazione di questi tempi sono le panchine. Qui ce ne sono ovunque. L’altro giorno, mentre guardavo la mia ombra seguire il ritmo della mia sgambata, ho abbozzato una cifra del tipo: una panchina ogni dieci abitanti. Ce ne sono in luoghi impensabili. Loci ameni. Accordi sottobanco tra funzionari del verde pubblico e, e come si chiamano i produttori di panchine?
Mi sono seduto su una di queste panchine inutili. Ieri, intendo. O forse era il giorno prima. I percorsi sono giusto un paio e le giornate sempre uguali. Abbiate pazienza. Mi sono seduto, dicevo, perché di correre non avevo tutta sta gran voglia. La città, lì, era bella e che finita. C’erano i campi, i binari dell’alta velocità dove non passa credo più nessuno o quasi, i fossi e una panchina. Non c’era più nemmeno la strada. Un po’ di erba tagliata poco e male. Un cestino senza sacchetto di plastica. Quante persone si sono sedute su questa panchina nell’ultimo mese? Chi si ricorda il settantatreesimo classificato della Liegi-Bastogne-Liegi del 1993? E chi mi sa dire il terzino sinistro del Werder Brema nel 1981? Nessuno. Ci sono oggetti così, che fanno la stessa fine delle notizie inutili. Dimenticati, invisibili. Un giorno qualcuno arriverà qui e dirà che questa panchina, in effetti, non serve proprio a un cazzo di niente. Allora la porteranno via con un camioncino e di questi listelli di legno su cui poggio il sedere faranno pellet di pessima qualità.
Le ponghe sembrano un incrocio tra un topo e un piccolo castoro. Il loro vero nome è nutrie, ma qui le chiamano tutti ponghe. Non ricordo di averne mai viste così da vicino. Era giusto a cinque metri da me. Prima del covid-19 e la quarantena, quando le persone erano in giro e facevano un gran baccano, non si facevano vedere. O forse, solamente, non c’era tempo per guardarle. Per giunta vivono nei fossi. Oggi vedere l’acqua che scorre, anche se putrida, è un toccasana, ma prima nei fossi ci si andava solamente quando si finiva fuori strada con l’auto. La ponga mi guardava. Una macchia scura nella fievole luce di un lampione lontano. Non ho letto paura alcuna nei suoi movimenti. Che cazzo vi sta succedendo? Che vi passa per la testa che non vi si vede più in giro? Questo credo mi stesse dicendo. Il fatto, vedi, è che molti di noi si ammalano e alcuni muoiono pure. Se ne vanno i più vecchi ed è una brutta faccenda. Quando non c’era il virus ai vecchi piloti a volte suonavo il clacson perché erano piantati in mezzo alla strada e io c’avevo da fare. Da noi ultimamente, cara ponga, si viaggiava spediti e non c’era tempo di aspettare chi andava piano. Ora non faccio benzina da un mese e più. Pensa te. Il fatto è che la vostra vita è sempre quella, ponga, mentre la nostra cambia e cambia troppo in fretta. Cambiamo noi. Anche i vecchi non sono più quelli di una volta. Quando io ero bambino, sugli appennini, i vecchi erano semianalfabeti e avevano la schiena piegata per la fatica di una vita. Pochi denti e tante rughe. Ora sono diversi. Sono belli. Usano i computer. Però si ammalano, purtroppo. Tutto è cambiato, ponga, tutto è cambiato e manco ce ne siamo accorti.
Quindi è arrivato il grande vento e ha spazzato via tutto. Niente corsa. La ponga aspetterà domani, se mi vorrà rivedere. Si è fatta sera e il vento si è calmato. A volte mi pare che sia passato un anno o forse più. Faremo, faremo, faremo. Sarà due volte Natale, cantava Lucio Dalla. I vostri discorsi mi sembrano una cosa del genere, ecco. Io non riesco a immaginare il giorno che verrà. Solo non vorrei trovarmi in un night club di New York. Non subito, almeno. Ci tenevo a dirlo.