Furto 8 – Massaggi a gettoni
Ho conosciuto Anna in aeroporto. Ci siamo seduti su quelle poltrone a gettoni che fanno i massaggi e nessuno dei due ha avuto il coraggio di infilarci i soldi. È sola, come me, e come me deve prendere un volo che la porterà in una casa in cui non è nata ma dove ha imparato a vivere.
Tiene in mano Zafon con L’ombra del vento, un libro che ho amato ma non ne ricordo il motivo; io ho in borsa Amy Hempel e le sue Ragioni per vivere. È lei a iniziare la conversazione, sentendosi forse osservata, dovremmo far finta di goderci il massaggio, oppure potremmo chiudere gli occhi e far finta di dormire.
Anna aspetta il volo per Cagliari, io quello per Bari. È un’insegnante di quarantasette anni originaria di Ariccia e da quattro vive in Sardegna, a Sestu; lì si parla una lingua a parte, la gente è ispessita ma lentamente valicabile, la fregula è diventato il suo piatto preferito ma sempre dopo la porchetta di Ariccia che non c’è niente di più invitante di un coltello che affonda nella carne. Ha comprato una piccola casa poco fuori dal centro con un grande salice vicino al cancello d’entrata; le è sempre piaciuto il salice, così arreso e abbandonato alla gravità, senza tensioni, senza vergogna, con lo sguardo verso il basso, verso la terra, madre natura.
Anna ha due fedi al dito, me ne accorgo, se ne accorge, le accarezza; mi chiede se ho letto Zafon, l’ha acquistato nella libreria qui a fianco, compra un libro a ogni suo viaggio, vorrebbe iniziarlo ma ha deciso che lo porterà sotto il suo salice. È stata lei a chiedere il trasferimento, voleva a tutti i costi andare a vivere su un’isola – come la capisco! -. Ad Ariccia ci sono suo marito e suo figlio, nel cimitero di via degli Olmi; Marco era un ingegnere elettronico, testardo e metodico, patologicamente ordinato e appassionato di Guerre Stellari, il suo opposto; Samuele invece era come lei, sognatore e distratto, o meglio distratto perché sognatore, un convinto disegnatore ma assolutamente incapace, con macchie di cibo sul colletto e una scarpa sempre slacciata. Come suo padre però odorava di camomilla, ne bevevano a litri, la pelle ne trasudava, e amavano il mare, quel continuo andirivieni delle onde, come una danza, come loro.
Quando la chiamarono per dirle dell’incidente era appena arrivata a scuola; ricorda di essere rimasta inebetita per molto tempo, come nella scena di un film messo in pausa, chissà che avrò pensato. Sapeva già che Marco e Samuele erano morti, perché le percezioni sono come gli impulsi, provi a controllarle ma non ci riesci, o forse non vuoi. La perdita di una famiglia è la perdita di se stessi, della propria identità, è un po’ come tornare bambini a gattonare, con mani e ginocchia a scoprire il mondo perché solo i piedi non bastano più.
Anna prende il portafogli, infila delle monete nella sua poltrona a gettoni, poi nella mia. Il massaggio parte ed è terribilmente fastidioso, ridiamo, forse era meglio continuare a fare finta.
Il libro di Zafon l’ho riletto quella notte stessa, tutto d’un fiato, e in fondo parlava di noi:
«A volte è più facile confidarsi con un estraneo. Chissà perché. Forse perché un estraneo ci vede come siamo realmente, e non come vogliamo far credere di essere».