Enne come apocalisse
Se l’apocalisse potesse scegliere di cambiare nome, così tanto per sfizio, allora prenderebbe in prestito la penna di Nietzsche per fare ghirigori incomprensibili sulla faccia della terra e scrivere aforismi, tipo: il mio nome è racconto di una storia che si compie. Il mio nome è dinamite che fiorisce. Martello che scolpisce. Segno che cancella l’orizzonte, il mio nome è tragedia capace di lanciare approdi, di salvare naufraghi.
Negli ultimi giorni pensavo a tutte queste storie apocalittiche in cui siamo intrappolati e mi è tornato in mente, seguendo una catena di pensieri e le sue strane logiche, un incontro con un tipo singolare conosciuto dieci anni fa.
La storia è molto semplice. Ero al primo anno di insegnamento e un insegnante alle prime armi, in sala professori, è come una bollicina di sodio nell’acqua Lete, avete presente no?
Ero sempre molto carino, vestito a modo: giacca di velluto, gilet morbido, possibilmente cravatta di lana e jeans che fanno molto “filosofo overground”, ma sembravo circondato dall’aura respingente del neofita. Timidamente mi facevo avanti solo per chiedere il minimo indispensabile, cercando di procurare il minor fastidio possibile e respirando una modica quantità di ossigeno, per non deturpare l’atmosfera con la mia evidentemente inopportuna e pestilenziale presenza, catapultato così per accidente in cotali sacri luoghi della docenza.
A un certo punto, vedo entrare questo tipo in sala professori. Pochi capelli e arruffati, visibilmente unti, barba incolta di 3-4 giorni, occhiali spessi e sporchi, maglietta Polo sdrucita di colore grigio topo, pantaloni larghi e spiegazzati di lana pesante. Sandali ai piedi, con calze bianche in bella evidenza.
Uno che considerava la forma come minimo del tutto irrilevante.
Aveva forse 50-55 anni, ma ne dimostrava almeno 10 di più.
Era anche lui nuovo, in quella scuola: si era trasferito da poco e nessuno lo conosceva.
Forse per questo, o chissà per quale altro motivo, aveva cominciato ad attaccare bottone con la bollicina di sodio.
All’inizio risposi un po’ per curiosità e per la forma di tenera pietà che quella figura mi ispirava. Era un po’ stralunato, in effetti. Mi sembrava vivesse una dimensione tutta sua, difficile da comprendere. Eppure qualcosa di quella strana immagine, anche talvolta repellente c’è da ammetterlo, polarizzava la mia attenzione.
Nei nostri brevi incontri, avremmo scambiato al massimo qualche decina di parole in tutto l’anno, sempre o quasi venivo trascinato dentro qualche suo riferimento a Nietzsche dal quale non sapevo come uscire.
Lui sembrava non accorgersi del mio imbarazzo e anzi, da dietro quelle lenti incredibili, sembrava schiacciarmi un occhio come d’intesa, del tipo: “sono cose per animi eletti, queste, che vuoi che ne capiscano tutti questi poveretti di spirito”, riferendosi nemmeno così implicitamente a tutti quelli che ci circondavano.
Io mi aggiustavo la cravatta, sorridevo, ammiccavo, abbozzavo, svicolavo con una certa prudente eleganza, imboccando il tragitto più corto verso la porta. Ma poi lo salutavo sempre con un certo sincero trasporto, intercettandolo casualmente in corridoio mentre incedeva lentamente con la sua strana andatura da brutto anatroccolo.
Una presenza forte e struggente, nella sua quasi invisibile sostanza, mi colpiva in quell’essere vivente.
Fine della storia. Anzi no.
Qualche tempo dopo, un paio d’anni circa, ormai trasferito al nord e immerso in altre faccende, fui raggiunto dalla notizia della sua morte solitaria e improvvisa.
A un certo punto non era più andato a scuola, senza dare nessuna comunicazione a nessuno. E dopo alcuni giorni lo avevano trovato così.
Un collega comune, che non avevo mai più né visto né sentito dopo la fine di quell’anno scolastico, si era impegnato nella ricerca del mio numero telefonico per comunicarmi l’accaduto, dicendomi che gli era sembrato giusto farmi partecipe della dipartita.
Probabilmente ricordava di aver colto qualcosa come una qualche mia complicità elettiva nei confronti dell’ormai defunto collega di filosofia.
O forse, semplicemente, le persone sole ispirano tenerezza e pietà non solo al sottoscritto.
Una strana apocalisse degna di Nietzsche senza dubbio, mi viene da pensare a distanza di tempo, la fine di quell’uomo fuori tempo e fuori luogo, che avevo appena appena sfiorato con la mia vita.
Nietzsche, una mattina d’inverno, mentre si trova a passeggiare in una elegante via di Torino, all’improvviso abbraccia un cavallo appena frustato dal cocchiere e si mette a piangere disperatamente, davanti agli sguardi sbigottiti dei passanti.
Un momento di una delicatezza sfavillante che apre definitivamente, per il filosofo di Röcken, il varco verso la follia dalla quale non si riprenderà più fino alla morte.
Solitudine, singolarità, eccentricità, squilibrio, genialità, incapacità ad omologarsi o malattia. Forse semplicemente inettitudine alla vita.
E, non so perchè, ma mi viene da pensare: chi di noi è senza peccato, scagli la prima pietra.
Nel senso che ognuno ha la propria apocalisse nella vita e forse, qualcuno di noi, molte di più che una soltanto.
Ma non sappiamo mai, o quasi, che questo significa in fondo che stiamo vivendo, che abbiamo vissuto, che la vita ci supera e gli incontri fanno la vera differenza.
Perciò raccontare gli incontri è rimanere fedeli alla vita e al senso della terra, mi permetto di tradirti caro Nietzsche (ma che bello tradirti, non è vero?).
E che cosa è l’apocalisse, in fondo? Tragedia, dramma, terribile sventura?
Tutte queste cose insieme o forse solo una storia, appunto, che si compie in un racconto.
Fine della storia, adesso sì.